Nell’ambito della rassegna shakespeariana “Tutto il mondo è palcoscenico” del Teatro Carcano, caricata sul loro canale youtube il 03 di aprile, e disponibile gratuitamente per una settimana, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Otello, ideato e recitato da Davide Lorenzo Palla, diretto da Riccardo Mallus, con la partecipazione musicale degli Ottavo Richter.
Quante parole ci possono stare in un fiato? L’attore Davide Lorenzo Palla risponde a questa domanda con la sua recitazione, prende una bella rincorsa, inspira forte, e riesce a farci stare tutto un testo shakespeariano, sembra che ce l’abbia davvero una musa di fuoco ad infiammargli lo sguardo, ed a scaldargli le battute. La sua è una dattilografia verbale implacabile, ed ogni fonema è battuta con forza e determinazione sulla Lettera 22 della laringe. Sentirlo recitare equivale a vivere la magia di vedere trasformarsi un palcoscenico un regno, ha il sapore sonoro di certi temporali estivi, in cui i goccioloni sempre più veloci e frequenti diventano parole leste, messaggeri che mettono le ali ai piedi, e ti viene la voglia di metterci la testa sotto a quel diluvio di parole, per sentirne la confortante frescura. Si mostra col suo tricorno da corsaro, da pirata della filibusta, con il sorriso canagliesco.
Con la voglia di far correre l’anima all’interno del testo, fin quasi a farle scoppiare il cuore, si mette davanti agli spettatori, e diventa, non un cantastorie, ma il cantastorie. L’unico possibile in quel momento, il solo che possa aprirsi come un sipario, per mostrare la tragica storia del moro di Venezia. E proprio come tutti i cantastorie che lo hanno preceduto, porta su di sé la polvere delle strade a cui chiedere quali storie narrare, e come raccontarle, così come le racconta il vento. Ha il chiasso delle osterie nella sua vivacità scenica, la voglia invincibile di raccontare una storia, e, per scriverla alla Baricco, finché c’è una buona storia da raccontare, finché una diva può cantare l’ira di Otello e dei lutti ad esso collegati, non si è mai fregati. Non si conosce come un singolo, ma, alla maniera di Pessoa, come un pieno orchestrale degno di essere ascoltato.
Non ha una sola anima, ne ha parecchie, ed ognuna di esse è lì, pronta ad offrire se stessa ad uno dei personaggi della storia. Ha qualche cassa su cui salire, per creare il suo speaker’s corner, per esprimere di volta in volta la verità di tutti i ruoli. Gioca con il pubblico, lo provoca, lo stuzzica, lo elettrizza, come le rane galvaniche, lo risveglia della letargia della poltrona, e lo coinvolge sulla scena. Porta davvero su di sé l’eredità di una lunga teoria di interpreti che hanno il dono di fare del proprio racconto un vino pastoso, tannico, che ti accende le gote, che ti scalda, e un po’ ti fa girare la testa. Ha dei musicisti in scena pronti a farsi coro di questa particolare tragicommedia, perché le storie fatalmente, quelle più vere, immerse fino alla punta dei capelli dell’umano, sono insieme tragiche e comiche.
E la musica accompagna questo viaggio da Venezia a Cipro, dall’amore alla gelosia, dalla razionalità alla follia, con la leggerezza con cui le dita del fisarmonicista scorrono libere tra i tasti. Questi musicisti sono una piccola banda di paese, una di quelle che accompagnano tutti i momenti di una comunità, dai più tristi ai più lieti. Suonano le note funeree del finale che diventa prologo della vicenda, come nella versione cinematografica dell’Otello di Welles, suonano i momenti di festa, amplificano gli stati d’animo, lanciano come arcieri le parole dell’attore ancora più profondamente verso il loro naturale bersaglio, la platea. Non c’è una pausa, non c’è un vuoto che l’attore non riempia dei colori della sua interpretazione, e salta veloce dalla narrazione all’azione in presa diretta, come si può balzare da una cassa all’altra. Ti stordisce piacevolmente la giostra di parole che rallenta, al momento giusto.
Ti mostra il dettaglio, per invitarti ad avvicinare un po’ di più l’attenzione a quel fatale fazzoletto. Ma se prende in mano un microfono, se lo avvicina al viso, come un crooner alla Sinatra, o come una rock star, allora sa fare il suo dovere di attore drammatico. Idealmente si toglie per un attimo l’ideale berretto a sonagli, e calza dei coturni tragici che gli stanno a pennello. E tira fuori tutta la disperazione di Otello, il tormento che lo invade per il gesto fatale che sta per compiere. E lo spettatore se lo ritrova tutto lì, in quel palcoscenico di parole che incantano, che ti prendono per mano e ti fanno credere di essere lì, in una camera da letto di Cipro, ad assistere a un terribile femminicidio. Non si ferma Davide, non si ferma mai, ha più fiato di quanto ne potrebbero avere tutti i personaggi insieme.
Sembra uno di quei bambini con l’argento vivo addosso, con lo sguardo di chi ti sfida a stargli dietro, a seguirlo nella corsa e nei giochi. Ha la fiamma di Prometeo che arde negli occhi questo interprete, in grado di alzare la sua temperatura emotiva, ed insieme quella della platea. Un fuoco in grado di accenderne altri, una lucciola che si muove con destrezza sul palcoscenico. I suoi gesti e le parole sembrano accettare reciprocamente la sfida di una corsa, di un percorso ginnico che si può affrontare solo con un giusto allenamento. E, proprio come Otello, conquista la sua platea, la sua Desdemona, con la forza del racconto, circonda con un abbraccio di calde parole la platea, che si ritrova lì, ad meno di un passo da lui, e non può fare altro che accorgersi di esserne stata sedotta.
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