Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo A proposito di lei, di e con Monica Faggiani e Silvia Soncini. La supervisione drammaturgica è curata da Tobia Rossi. Due figure femminili si specchiano l’una nell’altra.
Quando una donna si relaziona con un’altra donna l’impressione che se ne ricava è quella che sia l’anima stessa a guardarsi allo specchio, a scoprirsi, a cartografarsi attraverso l’altro viso. Questo succede in questo spettacolo dove il rimbaudiano “Je est un autre”, “L’io è un altro”, che trova cittadinanza psicanalitica nel pensiero di Lacan, rappresenta una sorta di persistenza retinica, di immagine che si sovraimprime idealmente ad ogni frame. L’identità per trovarsi deve necessariamente sdoppiarsi, deve attraversare questa frattura schizofrenica, deve transitare nel suo opposto. Una coppia di donne, la perseguitante e la perseguitata, si muove, scena dopo scena, quadro dopo quadro, con l’esattezza geometrica di un’opera didascalica brechtiana. E se Un uomo è un uomo nella drammaturgia dell’autore tedesco, qui Una donna è una donna, e, quando questa si svela, noi spettatori capiamo quanto sia profonda la tana del bianconiglio.
E quando le due donne guardano nello stesso specchio, e ricreano quella coppia ideale, Liv Ulmann e Bibi Anderson in Persona, Anne Parillaud e Jeanne Moreau in Nikita, allora si ha la sensazione che la femminilità sia uno spazio oltre l’orizzonte degli eventi psichici, che nulla sarà come prima. Per dirla alla Alex di Arancia Meccanica, si tratta di piacere impiacentito, di una presa di coscienza del subcosciente, di quella zona profonda interiore, dove non si tocca, e bisogna imparare psicanaliticamente a nuotare. D’altra parte l’etimologia dell’ossessione è lì a darci l’immagine ideale di questo lavoro, l’ob sidere, il sedere attorno, l’assediare, l’isolare, fare in modo che nel campo visivo non ci sia altro che l’assediante. È geniale l’intuizione di far sedere a turno le protagoniste della storia in direzione della telecamera, di trovare in quello sguardo in camera il confessionale che sta al di là della quarta parete.
Il terzo personaggio simbolicamente non è altro che lo spettatore stesso. L’avvocata cui ci si rivolge per desiderio di giustizia, finisce coll’essere la stessa platea virtuale, che diventa alternativamente complice, confidente anche di due tesi opposte, l’ultimo specchio è quello del nostro occhio, dall’altra parte dello schermo video. Ma le cose non stanno esattamente come sembrano, ed i confini di giusto e sbagliato hanno barriere permeabili, osmotiche. Scoprire come due personaggi, apparentemente collocate ai due estremi dell’arco costituzionale caratteriale, finiscano coll’assorbire il modo d’essere dell’altra è qualcosa di meraviglioso. Sono davvero brave le due attrici a lasciarsi gradatamente recitare dall’altra, ad assorbirne i toni, a restituire degli sguardi che, ad un certo punto, finiscono coll’essere perfettamente sovrapponibili. Le verità interiori, quelle normalmente nascoste, appena sotto il bordo della psicopatologia della vita quotidiana, della nevrosi stordente ed oppiacea, escono come un fiume carsico.
E le parole non sono semplici parole, sono interi squarci di paesaggi interiori, veri quanto un cellulare stretto nella mano. L’oscuro oggetto del desiderio è sempre il desiderio dell’altro, ancora ritorna la lezione lacaniana, fino ad arrivare ad una versione completamente decentrata dell’assunto cartesiano, tu sei, tu pensi, dunque io sono. Il rogito, l’atto d’acquisto con cui “comprare” la propria identità passa attraverso la firma del notaio, e qui il notaio è lo sguardo dell’altra. “A proposito di lei” non è semplicemente uno spettacolo, è il selvaggio, tenace, strenuo, desiderio di essere riconosciuti, di essere percepiti, passando anche attraverso le reiterate coltellate verbali di uno stalking, che si consuma sui social network. Si fa decisamente tesoro della lezione pirandelliana, essere è niente, essere è farsi, trovarsi, trovando l’altra e cercando disperatamente il suo riconoscimento. E gli occhi ancora una volta ne portano testimonianza, certi sguardi sono la necessaria punteggiatura.
I puntini di sospensione che ci ricordano il muto urlo munchiano interiore, e svelano un linguaggio altro che usa quello consapevole per costruire una sorta di rebus. È dolce, ed insieme terribile, naufragare in questi occhi, e ci si rende conto quanto davvero possa essere estenuante la ginnastica emotiva, psichica spirituale della recitazione. Monica Faggiani si immerge completamente nel suo testo, si lascia trasportare, si lascia accadere dalle parole che rendono le mani della volontà piacevolmente sporche di anima, dal tanto scavare. Quella voce appena velata, come la luce che abbaglia su cui si mette un foulard, si scopre vera e si stupisce ancora di questa scoperta. Silvia Soncini assorbe i toni della sua compagna di scena, si guarda fino all’anima nello specchio recitativo dell’altra, gioca lo stessa partita di verità, e ribatte colpo su colpo, da fondocampo, e tira dei meravigliosi, imprendibili, diritti verbali lungolinea.
Sono una coppia ideale che vive attraverso il contrasto e la dialettica, giocano il gioco della sopraffazione, nauseante per loro stesse, di quella relazionalità tossica che si strugge perché pensa amore e dice odio, portano su di sé l’eredità genet-ica teatrale, non a caso una denomina l’altra Madame. E le parole tra le due consumate, bevute, stropicciate, dicono tutto quello che possono dirsi tra loro, ma non possono esaurire la verità. Proprio nell’impossibilità di essere ciò che rappresentano trovano lacanianamente la vera verità. Nei fermo-immagine, nei segni di punteggiatura di questo testo scenico c’è quell’istante in cui lo sguardo allo specchio cessa di essere un fugace atto di vanità, diventa molto più di un’immagine, si trasforma in un mondo carrolliano Through the looking glass, e trova tutta la vertigine del proprio cercarsi, e l’ancor più grande vertigine del trovarsi.
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