Nell’ambito della stagione 2021/2022 del Teatro Elfo Puccini vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Diplomazia di Cyril Gely. La rappresentazione è ideata da Elio De Capitani e Francesco Frongia. Gli interpreti sono Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Michele Radice, Alessandro Savarese, Simon Waldvogel. La produzione è curata dal Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Catania.
Lo scrittore Tobia Fischer scrive che impugnare una pistola significa essere dalla parte giusta di un dialogo socratico, ma in questo spettacolo si prova esattamente il contrario. Per quanto il generale Dietrich von Choltitz punti ostinatamente la sua arma, con la stessa pervicacia con cui l’Hans freudiano gioca con il suo rocchetto, il vero maieuta del dialogo è il console svedese Raoul Nordling che vuole salvare Parigi da un tragico ordine di distruzione. Ed è vestito di bianco con la barba, animato da un suo personalissimo daimon, ha tutte le caratteristiche di un moderno Socrate, pronto a far partorire le verità più scomode ad un alto ufficiale, che proprio respira male in un notte d’estate “crucca e assassina”. Ci sono già intenzioni devianti, rinvii, tensioni, auto sabotaggi, ripensamenti, tutto un mondo di piccole e grandi psicopatologie, che De Capitani fa vivere magistralmente, le quali segnalano l’esistenza di una volontà inconscia.
Ed è pronta a essere portata alla luce dalle parole del diplomatico. In una stanza d’albergo si gioca una partita a scacchi verbale, rifinita come un oggetto di alta oreficeria di Cellini, e non c’è arrocco, difesa o attacco che tenga da parte del tedesco, perché dall’altra parte ci sarà sempre un cavallo imprevedibile pronto a dare scacco al generale. Questa notte di un nominato è intensa quanto quella manzoniana, con la felice intuizione di dare corpo e sostanza alla coscienza del militare attraverso il personaggio del diplomatico. Quello che salta subito all’occhio è la costruzione di geometrie, di distanze, avvicinamenti ed allontanamenti, che si vengono a creare tra i due personaggi, le due razionalità si danno battaglia su un piano cartesiano, su un tavolo da biliardo, dove si deve calcolare esattamente l’angolo del proprio discorso per fare punto. Apollo e Dioniso si scontrano per l’ennesima volta.
Si studiano, si misurano reciprocamente, consci del fatto che, per scriverla come il buon Eraclito, gli opposti si danno significato reciprocamente. Nessun servo e nessun padrone in questa dialettica hegeliana, ma una battaglia stremante, ininterrotta, che si consuma fonema dopo fonema. E dopo aver esaurito le pallottole verbali, ci si scontra all’arma bianca, alternando furiose sciabolate fonetiche a colpi in punta di fioretto. Elio De Capitani e Francesco Frongia costruiscono uno spettacolo che si regge su una vertiginosa architettura verbale, in grado di lasciarti senza fiato come la verticalità ardita e le volte rampanti di una cattedrale, che proprio non vuole saltare in aria per gli ordini folli di un pazzo dittatore. Ferdinando Bruni è sottilmente sulfureo, e la sua tentazione, esercitata sul generale, verso la scelta etica, è quella di un demone positivo che oppone una sorta di presenza zen, di meditazione in forma di dialogo.
E brucia il suo incenso fonetico in grado di catturare l’interlocutore e l’intera platea. La sua è una laringe ribollente, adatta a cuocere a fuoco lento l’avversario scenico, è un raisonneur, un fedele di Apollo, che non disdegna di usare le armi dionisiache alla bisogna. Si muove con esattezza sulla scacchiera scenica. La sua faccia da poker funziona, eccome se funziona, e vedere le sue carte è un rischio, perché il suo è tutto tranne che un bluff. Elio De Capitani, abita con soddisfazione, meravigliosamente, il suo personaggio, sembra di sentirlo idealmente pronunciare il suo convinto “hic manebimus optime”. Mostra tutto il tormento senza estasi di un generale il cui meccanismo pavloviano di ordini e di esecuzione degli stessi sembra essersi inceppato da tempo. Al pari del Ciampa pirandelliano fa sentire tutta la nota dissonante della corda seria e il minacciante eco di quella pazza.
Mostra il suo fiato corto, che non è solo quello dovuto all’asma, ma soprattutto quello di una logica militare che affonda con la stessa implacabilità del Titanic. Teso, nervoso è una sorta di lupo in trappola che non sa se mordersi la zampa intrappolata nella tagliola per trovare una via di fuga, o fidarsi di chi si offre di liberarlo da quella trappola. Non si limita a dimorare nel tempo scenico, lo diventa, ed allunga gli istanti come se fossero gocce di pioggia sul vetro di una finestra. Consuma la notte, ce ne fa sentire l’afa, ci fa avvertire il ronzio incessante dei suoi dubbi che lo attanagliano, che lo divorano dall’interno. I restanti interpreti, Michele Radice, Alessandro Savarese, Simon Wadvogel, sono bravi a fare gli assist giusti ai due protagonisti, a diventare gli stimolanti somatici, emotivi, della vicenda. Scaldano al momento giusto la temperatura.
Sono come aghi dell’agopuntura inseriti nel punto giusto del testo scenico per stimolarlo. Caloriferano i dialoghi del generale e del console al pari dell’artemisia bruciata in vicinanza della cute, nella pratica della maxicombustione. Il testo di Cyril Gely è un ottima drammaturgia le cui potenzialità sono ampiamente utilizzate in questa riuscita versione teatrale. Qui il dialogo diventa esso stesso un personaggio, un intero mondo che due esperti interpreti della levatura di Bruni e De Capitani, non solo sono in grado di reggere, ma li fanno girare in aria come potrebbe fare il giocoliere con le sue sfere. Sono prestigiatori delle parole, le mostrano, le restituiscono in forma di diamanti purissimi. La voce decisa dei rumorosi applausi testimonia non solo il gradimento da parte del pubblico, ma anche la certezza che abbia passato la barriera emato – encefalica e sia arrivato alla coscienza.
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