Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo uno studio da Le 5 rose di Jennifer di Annibale Ruccello. Lo spettacolo è firmato e interpretato da Fabrizio Kofler.
Ha fatto una sorta di miracolo, il protagonista di questo pseudo-monologo: non si è limitato a lasciare spazio all’anima junghiana dentro di sé, al femminile archetipico, inserito nel mazzo dei tarocchi psichici, ma ne ha scoperto la parte più tragica, più crudele; quella, tanto per intenderci, che appartiene alle eroine eschilee, euripidee. Da qualche parte deve avere avuto, mentre si truccava davanti allo specchio del proprio camerino, una Jeanne Moreau, pronta a ricordare all’interprete, come alla Nikita del film di Besson, che due cose non conoscono confini: la femminilità e i modi per abusarne. Si muove sui tacchi come un funambolo, sulla corda sottilissima tra il maschile e il femminile, disegna una verticalità aggraziata sempre in pericolo di poter cadere, e, tuttavia, è proprio quel pericolo ad accrescerne il fascino. Si siede per attendere una telefonata che non arriverà mai.
Godot ha fatto in tempo a lasciare il suo numero telefonico, e, da quel momento in poi, l’invincibile, quanto disattesa, voglia di ricevere una certa chiamata. In compenso, Jennifer riceve continuamente chiamate da estranei, poiché Tyche, la divinità della sorte, oltre a ingarbugliare i fili dell’esistenza, in questo testo si diverte a fare la stessa cosa con le linee telefoniche. Pettina la sua parrucca, e quel gesto farebbe voglia al buon vecchio Freud di aspirare lungamente il suo sigaro, per poi annotare fittamente il suo taccuino. E’ un gesto psicologico, è un rito di passaggio in cui l’en travesti può determinarsi; è il guado dello Stige verso un femminile che non ha niente di risolutorio, e che impone gli alti coturni della tragedia. L’attore si mette a disposizione nella carne, nello spirito, nei gesti e nelle parole, per lasciare che esca, che viva il personaggio. Lascia agli spettatori lo stesso dubbio voluto dal drammaturgo, Annibale Ruccello.
In questa drammaturgia, le altre presenze, le situazioni in cui, via via, si trova il personaggio, possono essere, forse, frutto di una proiezione, di un’ allucinazione da parte di Jennifer. In fondo si trova nella sua stanza, che, per estensione, diventa il suo mondo interiore. D’altra parte, la psicologia insegna che qualcosa è vero, è reale, nel momento in cui è la psiche a decretarne l’esistenza. Viviani e Beckett, Scarpetta e Ionesco si incontrano, in una drammaturgia che sa anche farsi fredda quanto l’amore evocato da Fassbinder. Se c’è qualcosa che l’autore, in questa pièce, fa divinamente, è tradurre la filosofia heideggeriana, il legame ai confini del dicibile tra essere e tempo che passa, attraverso la presenza umana. E’ un metronomo implacabile, Jennifer: non misura il tempo, perché lei stessa è il tempo, che si allunga, si squaglia, si esaspera, nell’elastico dilatarsi di ogni singolo istante.
E allora non può far altro che, pessoanamente, recitare il dolore che davvero prova, rifarsi il trucco, rassettarsi, regalare a sé e al suo pubblico il rossetto del migliore bel esprit, della battuta più puntuta, con cui trafiggere al cuore la noia dell’attesa. I fonemi passano, fatalmente, dai suoni evocativi dell’idioma partenopeo, ed è come fare un bagno nell’acqua densa dell’emotività. Non si può che offrire il proprio ventre, la propria “pancia”, a queste battute dal sapore napoletano. Fabrizio Kofler accetta la sfida, e guarda la platea come guarderebbe uno specchio, rilanciando il sempiterno dubbio sulla propria identità a tutti gli spettatori. Come un diesel, scalda il suo motore interiore, fino a portarlo all’urlo tragico, e, fin dall’inizio, mostra la lacrima sulla guancia di questo Pierrot, al di là del bene e del male, nonché dei generi sessuali. Certi sguardi vitrei, certi appuntamenti all’interno del monologo,sono verità dell’anima.
Diventano, insieme, schiaffi e carezze per il pubblico; benché fragile come uno scricciolo, Jennifer è capace di beccare e artigliare come un’aquila, e fare chissà cos’altro. La radio è la sua compagnia, il medium caldo di mcluhaniana memoria, che contribuisce ad alzare la sua temperatura emotiva. Si sentono dediche, canzoni cui appendere qualche stato d’animo o qualche ricordo, in grado di stordire la coscienza del tempo, almeno per pochi minuti. E poi, ecco l’annuncio dell’assassino dei travestiti, delle rose, dei fiori del male che sono pronti a sbocciare ovunque, anche nel giardino di questa drammaturgia. La radio, in fondo, è quanto di più vicino ai pensieri, alla realtà interiore, possa esistere: sembra fatta apposta per creare un coro tragicomico, tutto a disposizione della protagonista. Dioniso è già passato di lì da un pezzo, e ha lasciato nella stanza non il divino, ma solamente una bottiglia di vino.
Non è difficile immaginare che anche una Clitennestra, una Medea, una Fedra intrappolate in qualche squallido appartamentino della suburra, con il cuore ancora stracolmo di tragedia, ma con una realtà più adatta a una sceneggiata napoletana, non potrebbero far altro che attaccarsi a una bottiglia, e a un filo di speranza; filo che, fatalmente, diverrebbe quello del telefono. Quest’ultimo è la vera compagnia, quella protesi del proprio apparato acustico in grado di far ascoltare le voci, forse anche quelle di dentro. Tutte le sue parole, le più leggere e le più pesanti, sembrano indicare il silenzio e le pause che ci sono fra esse, verso quel posto inconoscibile e indicibile in cui se ne andrà la fiamma, una volta spenta la candela. Potrebbe svanire da un momento all’altro, Jennifer, come la fiamma di una candela. L’unica certezza ed evidenza è data dai generosi applausi, che bagnano il protagonista come una doccia catartica, rigenerante.
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