Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo AAA. CERCASI BUSINESS – PONTE MORANDI, UN CASO APERTO. Il testo è scritto e interpretato da Davide Quillico.
Quanto pesano le parole? In una realtà aumentata dai social, da internet, dall’immediatezza di qualsivoglia forma di comunicazione? La risposta fin troppo scontata, presa in prestito dalle leggi economiche, sarebbe: niente, o meglio, quel flatus vocis, quel respiro vibrante del filosofo medievale Roscellino, che identificherebbe la reale natura di tutti i nomi universali usati nel linguaggio. Eppure, delle eccezioni ci sono; e questo spettacolo è una di esse. Qui, le parole sono pietre che cadono, con un pesante tonfo, sulle papaveracee indifferenze verso la cronaca che ci lasciamo alle spalle. Davide Quillico, il protagonista, affronta la storia del ponte Morandi, e lo fa animato da quello spirito giusto che accomuna gli antichi aedi ai contemporanei narratori: quello dell’urgenza, della necessità imperativa di raccontare. La necessità, l’ananke degli antichi Greci, è una divinità invisibile, eppure impera sulle altre, stringendoci il collo, come un bisogno di cui non è possibile fare a meno.
L’equazione, il segreto, diciamo pure: l’essenza, di ogni teatro civile, risiedono in questo termine. Ma c’è di più, e c’è di meglio. Laddove non arriva la semplice cronaca giornalistica (intendiamoci: doverosa, essenziale), giunge la parola del narratore teatrale, e compie lo stesso miracolo che rende il teatro, ossia la poesia, ciò che è; non il rispetto della forma, ma quell’ipoteca di universalità, quella vertigine di un umanesimo che non teme di guardare più in alto possibile, e identificarsi con il proprio zenith. Ecco l’aroma, la fragranza inconfondibile che anima questo monologo, in grado di muoversi, con la leggerezza di una piuma, tra le tecnicalità dell’ingegneria civile, le furberie degli Scapini della burocrazia statale, appaltatrice, e tra le grida giuridiche di manzoniana memoria, che diventano quelle, tragiche, di chi ha sentito il cemento crollare sotto le ruote della propria auto. Suda, si agita, usa precise parole l’attore, come vorrebbe il filosofo Searle.
Al pari di Moretti, sa bene quanto chi parli male pensi male. Assistere all’alta artigianalità della creazione dei suoi fonemi, equivale all’osservare un vetraio di Murano soffiare la vita nelle solide curve di quella trasparenza. Sembra di vedere un orafo che rifinisce il suo pezzo, con la lime, con le carte abrasive, fino a lucidarlo perfettamente. Non c’è tara di retorica stantia, di quel giornalismo strappalacrime, falso quanto una banconota da 28 euro. Rimane un netto: il peso giusto di ogni parola che sia autenticamente etica, che si scuota e voglia, al tempo stesso, scuotere. C’è un’ulteriore cartina di tornasole di tutto questo, ossia l’emozione sincera di un cittadino genovese, che ha visto spezzarsi il femore di una città. Una frattura pertrocanterica, di quelle che prevedono un lungo periodo di riabilitazione. Mentre qualcuno pensava al profitto, a scapito della sicurezza, qualcosa cominciava a corrodersi, nel cemento armato di quel ponte.
E poi, ci sono le storie: quella rete precisa, geometrica, aracnica, delle singole storie di chi ha visto il proprio destino realizzarsi il giorno della tragedia, e Atropo recidere, insieme, i tiranti e le vite. Sono storie di persone comuni; sono, da sempre e per sempre, l’eterna storia di tutte le possibili tragedie, il passaggio di un essere umano dalla buona alla cattiva sorte. Quillico non si limita a raccontarle, ma le prende per mano. Riserva loro il gesto di Ettore, che si prepara a combattere con Achille, ma, intanto, si toglie l’elmo e prende in braccio il bambino Astianatte, come il più tenero dei padri. Sono parole barricate nel cuore, a lunga fermentazione; ce la mettono tutta, ma davvero tutta, per diventare la carne, e, soprattutto, l’anima dei personaggi che raccontano. Questo è un fulgido esempio tipico di teatro civile, che ha avuto, tra i suoi nobili padri, Marco Paolini e Ascanio Celestini.
Questo genere riesce a veicolare che la verità non è un oggetto statico da osservare sotto la teca museale: piuttosto, è un atto, uno sforzo dinamico, una necessaria scossa tellurica per rompere gli strati superficiali dell’indifferenza. Da quando gli dèi non si carrucolano più sulla scena a risolvere la vicenda, l’arduo tentativo è affidato all’interprete. E, in questo caso, solo, con la forza di questo racconto, l’attore non ci fa sentire la nostalgia degli dèi, perché spezza il pane dell’umano con gli spettatori tutti, dandosi generosamente: espressione sempre meno declinata sui palcoscenici nostrani. E sorride, sorride in punta di piedi, per paura che quel sorriso possa fare male ai personaggi del suo racconto. Qualche furtiva lacrima, poi, fa capolino dai suoi occhi, come testimonianza di una consapevolezza non solo etica, ma emotiva, umana, del suo dire.
Come per certi pezzi al piano, animati da cannoni cardiaci, pesta letteralmente sui tasti, schiaccia con determinazione il pedale della risonanza, lasciando che cadano, come valore aggiunto, su ebony and ivory, le proprie gocce di sudore. Tutto è esattamente come deve essere, non come si vorrebbe che sia. Ogni maschera è mostrata; ogni ipocrisia, anche solo quella probabile, emerge. Non c’è una singola nota incerta, un singolo fonema trascurato, inconsapevole, involontario, gratuito. Guardando, e, sopra ogni altra cosa, ascoltando, dopo un po’ subiamo quella particolare magia: un atto mesmerico, di alterazione della coscienza, di riassestamento della percezione, per cui a vivere, ad essere percepito dalla platea, non è più l’attore, ma la storia stessa, che fa di un palcoscenico un regno e principe per attori, per dirla alla Shakespeare. Applaudiamo con convinzione questo riuscito lavoro teatrale.
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