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Danilo Caravà - page 2

Danilo Caravà ha 86 articoli pubblicati.

Amiche – Recensione Teatro

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immagine della recensione amiche

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Amiche, con Daniela La Pira e Chiara Malpezzi. Il testo e la regia sono a cura di Sergio Scorzillo.

Dove guarda l’attrice, mentre mastica pezzi di cuore, con il retrogusto di un’erba amara? Deve essere stato questo l’interrogativo del regista,  mentre impostava le due donne, deliziosamente coinvolte in un passo a due verbale. Quell’altrove, quel punto al di là di ogni possibile platea, quell’invisibile  centro di gravità che attira gli occhi felini, è il rito di passaggio, il superamento della carne, della barriera del dicibile; zona di struggente nostalgia che precede, o forse segue, la nascita di un personaggio, e, più generalmente, dell’essere umano. Sono terribilmente liquidi quegli occhi, e hanno i riflessi di certi ostinati raggi primaverili su specchi d’acqua che, sul tremulo orizzonte del ricordo, faticheresti a ricordare se hai davvero visto, o solo sognato. Ecco, dunque, l’intuizione improvvisa, l’acqua fredda in grado di risvegliarti i sensi: si tratta d’anima, in questa pièce. Si è, idealmente, in un interno tutto fatto di interiorità.

Il montaggio stesso, felicemente cinematografico, vale a testimoniare il tempo non più cronologico, ma cairologico; ricostruito dalla coscienza nell’argomento, nelle sovraimpressioni, nei salti in grado di plasmare, come un demiurgo, l’istante. Nella camera oscura psichica, si sviluppano queste eccezionali fotografie di esistenze declinate al femminile. Sono istantanee, nell’album di famiglia impresso sulle retine della platea, che bruciano letteralmente di sentimento, crepitando. Alcune battute, incastonate in preziosi monologhi, sono il dito bagnato che scorre sul bordo di una flȗte di cristallo;  hanno l’odore dell’anima, inconfondibile, che ti sale su per le narici come un potente mentolo, in grado di stordire quel senso. La vicenda è ambientata nell’inquieta Dublino degli anni ’80; il Peter Falk del Cielo sopra Berlino direbbe: “Era a Dublino? Ma sì, non fa differenza, è capitato.”  La vera geografia della storia è tutta costruita nell’anima. Vivono in scena la debole e la forte, il clown bianco e l’augusto.

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E ancora, lo spirito apollineo e quello dionisiaco, Edith e Helen: ecco la sempiterna diade, all’imperitura, travagliata,  ricerca della propria identità attraverso quella opposta. Seguendo Lacan, il desiderio è sempre il desiderio dell’altra; stavolta non è scritto sul tram, ma in certi sguardi reciproci, in certi sovrappensieri. In un mondo di uomini dalle mani troppo ingombranti e rudi, è meglio, per una donna, permettere che sia un’altra mano femminile a toccare il baco da seta della propria anima. In questa educazione sentimentale rimasta sospesa a metà, la timida e fragile Edith diventa uno specchio per la volitiva Helen, in un gioco delle parti che si fa osmotico, e in cui, con spirito bergmaniano, la persona è una continua dissolvenza incrociata tra un volto e l’altro. Se si vuole conoscere l’essere umano, questa è la lezione di psicoterapia ben adottata dal regista e autore Sergio Scorzillo.

Bisogna mettere uno specchio di fronte a un altro specchio: una donna di fronte a un’altra donna, una profondità di strati di fronte a un’altra profondità, un gioco di identificazioni che si perde, e si ritrova, nell’orizzonte della propria coscienza. I riferimenti al cinema non sono casuali, dal momento che il regista costruisce campi e controcampi; attimi d’ufficio, di vita, di intimità che sono la parte fondante nel montaggio esistenziale. D’altronde, era il buon Hitchcock ad affermare che il cinema è la vita, con tagli di pellicola nelle parti noiose. Ma c’è molto di più, qui. C’è la volontà, perfino superiore a quella di un febbricitante Fassbinder, di restituire il mélo in purezza, il cuore esposto nella sua verità, così com’è, con tutta la sua voglia di essere, le sue titubanze, i suoi pianti, i suoi sorrisi, i suoi pianissimo

Immagine recensione Amiche

Gli stessi  fanno da contrappunto ai momenti in cui il pedale di risonanza del piano è pigiato con decisione, e le dita tuonano sulla laringe con una forza invincibile. Tutta la maestria del regista e delle interpreti si gioca su questi dialoghi, in cui le parole sono solo una parte minimale dei significati. La parte maggioritaria è nascosta in quegli spazi interstiziali, in quelle incolmabili fenditure, quei sovrappensieri, quei gesti nervosi e improvvisi che spezzano il tempo, che ne sono la sincope. E ancora, in certi fonemi c’è tutto lo scavo archeologico dell’anima dei personaggi. Ascoltare certe battute obbliga a sorseggiarle, come potrebbe obbligarti a farlo un vino fortemente tannico, strutturato, che deve far conoscenza del gusto, che non può e non deve essere frettolosamente rovesciato nella gola. Un meritato plauso va certamente alle due interpreti, che hanno costruito una partita serratissima di parole, un concertato di gesti, di canti e controcanti.

Daniela la Pira è una Helen dal carattere forte come certi whiskey che sorseggia, con l’abilità di far sostare per un po’ le battute nel ventre, prima di tirarle a lucido sulla carta vetrata della  laringe. Ma, quando mostra la sua fragilità , allora ti sembra di ascoltare il fruscio di certi tessuti di seta contro mobili antichi. Chiara Malpezzi è Edith: impiegata prossima, inizialmente, al rifiuto di vivere di un Bartleby melvilliano, scopre, come Ciàula, la sua Luna. I suoi fonemi  si mostrano prima inamidati, rigidi, per poi sbocciare come fiori davanti alla platea. Anima fragile, tormentata da un super-io freudiano molto cattolico e parecchio materno, trova il suo es nell’amica, e ci racconta, con l’amica stessa, le molteplici stagioni dell’anima.  Sergio Scorzillo  ci mostra tutte le occasioni di luce, e tutta la nostalgia per la sua mancanza, dentro la tenera notte di Fitzgerald dei due personaggi.

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Sinfonietta alcolica – Recensione teatro

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Immagine della recensione Sinfonietta alcolica

Nell’ambito della rassegna teatrale di Après-Coup, vi presentiamo lo spettacolo Sinfonietta alcolica, Omaggio ad Angelo Maria Ripellino nei cento anni della sua nascita 1923-2023, Recital in nove brindisi, con Alberto Astorri. Il progetto è curato dallo stesso interprete.

Come Lautremont è stato liricamente, esteticamente, affascinato dalla retrattilità degli artigli degli uccelli rapaci, io son stato letteralmente conquistato, ipnotizzato dal muscolo opponente del pollice di Alberto Astorri, che guizzava, trattenendo una spada posticcia. Come un misuratore emotivo di precisione, ha segnalato tutti i meravigliosi fuori scala dionisiaci di questa recitazione. Andrebbe chiamata in causa la teurgia, nel caso di questo interprete; la cerimonia brasiliana di Candomblè,  in cui i partecipanti/officianti, attraverso una danza frenetica, hanno la capacità di “indiarsi”. Ecco il corpo perfetto evocato da Artaud, la carne fatta anima salda, la laringe vibrante composta da tutto il corpo. Gustare questo interprete in scena equivale ad assistere a un’opera panica, alla volontà di schopenaueriana memoria, che spernacchia in direzione delle più stantie metafisiche. Guadagna la scena vestito come un direttore circense di oscuro paesino della Serbia, e apparentato, cromaticamente e nelle forme, a un personaggio dei quadri espressionisti.

Se osservate attentamente, come nella foto finale di Shining, lo vedrete giusto a un passo dall’entrata del Cristo di Ensor a Bruxelles. Vero e tonitruante come la bestemmia di un prete scomunicato, ha più forza un suo singolo fonema, anzi, prima ancora, un suo suono preverbale che tutta la Summa Theologiae di D’Aquino. Il suo disperato e, insieme, titanico omaggio è dedicato ad Angelo Maria Ripellino, al suo amour fou  per il teatro, per l’avanguardia russa, per una poesia altamente caustica, in grado di far felicemente piagare in stimmate esistenziali anche l’anima più algida. Diventa uno Sturm und Drang a tasso altamente alcolico, una tempesta di umori sublimati nell’angelo, in grado di riscattare anche la più oscura madame pipì del bagno pubblico di una stazione polacca di Katowice. Tempesta foneticamente, sussurra e grida come un Bergman in piena crisi nietzschiana.

Immagine della recensione Sinfonietta alcolica

E sa tirarti fuori da quel ventre, da quella gola bitumata e asfaltata da qualche blues di Tom Waits, certe carezze bastarde che ti fanno un male cane, e che ti chiamano, dagli antri del perduto essere, le lacrime maggiormente saline. Mentre ingolla screwdriver sbagliati, che hanno abiurato l’arancia in favore della vodka in purezza, ti sembra di vederlo trasumanare in Oliver Reed della Brianza, molto più velenosa di quella di Battisti. Sarebbe pronto all’ennesima, fatale sfida a braccio di ferro con i suoi marinai in un pub di Malta, al pari dell’attore inglese, fino all’estremo sussulto diastolico e sistolico;  con i suoi appuntiti baffi alla francese, come due lancette spioventi dell’orologio, sembra una creatura biomeccanica, in grado di unirsi, in una fusione a livello genetico-molecolare, col più ansante, iperattivo, felicemente ispirato Balzac. Lui le parole non le recita, lui è la parola.

Vive quella più sacra e, insieme, più oscena, pronunciata dal sommo sacerdote nel sancta sanctorum. Non si limita a recitare, fa molto di più: si fa calligrafia di carne, abita il suo satori. Quando cade in scena, stremato dalla fatica sisifesca del verbo, insieme a lui cadono corpo e mente, cade l’illusione dell’ego, e tutto è esattamente ciò che è, disvelato in remissione della platea. Muore per rinascere, come l’eterna fenice. Se bisogna ascoltare il consiglio dello scrittore John Fante, e chiedere la verità alla polvere, il consiglio spassionato che do è interrogare quella smossa da Astorri su tutti i palcoscenici in cui ha bruciato, come i replicanti di Blade Runner, la fiamma da entrambe le estremità della candela. E anche sullo stelo, mi verrebbe da aggiungere. Con lui, Ripellino è restituito nell’atto stesso della scrittura poetica, anzi, di più: nelle scosse esistenziali, nel di dentro, ingorgato come un maelstrӧm, del poeta.

Immagine della recensione Sinfonietta alcolica

Restituisce tutta , ma proprio tutta, la vivacità cromatica, la potenza – insieme, tragica e lisergica –  di un verbo che apre le porte della percezione. Corre insieme alla parola, corre con il fiato di tutti gli uomini che sono stati, che sono e saranno; corre per vincere in velocità i significati, per doppiarli, per trovare quelle incolmabili fenditure, quei momenti sudatissimi e meritatissimi di pausa, in cui ti verrebbe da domandargli quali dèi invisibili stiano osservando le sue pupille. Incarna la nostalgia della luce che può provare un Lucifero, e quanto il cerone del clown sia la farina di Eschilo e, insieme, quella di Tony Montana, che vede i cespugli della sua Dunsinane hollywoodiana muoversi, per la sua ineluttabile disfatta.  Ma, soprattutto, la incarna quando si camuffa nel finale, quando diventa la maschera definitiva di tutti gli Zanni.

Fa rivivere, con l’elettricità esoterica e metafisica di un Dottor Frankenstein, gli Sganarelli che si sono fatti deragliare la mandibola, a furia di piangere risate. Sono creature dolcissime in questi momenti, in cui si trovano a mezza via tra se stessi e gli altri da sé. Ha qualcosa di veramente sacro anche la più dozzinale maschera di gomma; ha il senso di compassione per tutta la tragicità della coscienza che la indossa. Ci si accorge dell’ultima verità, la più preziosa. Si avverte il canto d’amore estremo  nei confronti del teatro, l’amore invincibile per il proprio terribile carnefice, con l’abbraccio della fatale sindrome di Stoccolma. Nella struggente, tragicomica, esitazione nell’uscire dalla scena, oltre la delizia di quella che Tofano chiamerebbe la più riuscita  padovanella, si consuma, per tutta la platea, il commiato eterno, il  fermo immagine fatale di un amore che ancora vibra e brucia: un eterno severiniano nascosto alla vista, ma, per sempre, essente in tutti gli spettatori… applausi!

Immagine dell recensione di Sinfonietta alcolica

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Le Troiane – Recensione teatro

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Immagine dello spettacolo Le Troiane

Nell’ambito della rassegna teatrale 2023/2024 del Teatro di San Giuseppe di Rovello Porro vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Le Troiane, a cura di Nuove Prospettive APS. Alberto Mancioppi è il regista ed insieme il dramaturg che ha creato il testo, liberamente tratto dal lavoro di Euripide. Con Stefania Acquati, Deborah Caporale, Laura Carroccio, Mariano Di Rago. Maria Grazia Esposito, Francesco Ingrosso, Giorgia Meroni, Antonio Santoro, Maria Rosa Stercoli, Rosa Vitiello. L’aiuto regia è curata da Laura Carroccio.

Lo psicologo Hillman affermava che gli dèi sono diventati malattie, fumo sublimato del tabacco delle nevrosi, e in questo spettacolo, nella felice intuizione registica, diventano personaggi del varietà, cabarettistiche figure tragicomiche che giocano con il mondo, come il Chaplin de Il grande dittatore. Poseidone è un personaggio felliniano; un volto azzimato, un sigaro, un gioco di magia, un sorriso astratto e gentile da mimo innamorato di un invisibile fiore, sono il suo spettacolo d’arte varia di un dio innamorato perdutamente degli spettatori. Mentre Atena diventa una funerea Mercoledì Addams indispettita dai greci, vittima di violenti, accesissimi, sentimenti di desiderio di vendetta. Se i supereroi di Stan Lee dovevano avere, per geniale legge di contrappasso, super-problemi, questi Numi ne hanno ancora di più. Il mondo, copernicamente, si rovescia, ed il cielo olimpico si è ridotto ad una stralunata, minimale, compagnia di avanspettacolo. La polvere di stelle ci mette un attimo a diventare polvere di palcoscenico.

Ecco, infatti, che la tragedia è proprio lì, a meno di un passo. Proprio come Aristotele l’aveva decifrata, con un potenziale catartico altissimo, con l’universalità di una poesia che attraversa i secoli. Non è un caso che la poetessa Alda Merini abbia individuato, in un’immagine potente di questa tragedia euripidea, il sentimento in grado di generare la forza gravitazionale irresistibile, tonante, dei versi più alti: “una madre, Andromaca, a cui viene sottratto un bambino, Astianatte”. Si tratta di un dolore lancinante, senza limiti, che nessuna morfina del linguaggio è in grado di curare. La verità è l’urlo, lo strazio, il luogo non luogo in cui la parola si sveste di se stessa, entra in corto circuito con il proprio significare qualcosa. La vera divinità, conquistata a un prezzo troppo alto, ce la portano queste donne, vittima di una guerra di cui devono subire tutte le conseguenze.

Immagine dello spettacolo Le Troiane

Sono eterne, come eterno è il loro dolore, che, di conflitto in conflitto, ferisce la carne dei secoli. Il rigirarsi, i gesti apotropaici, l’impossibile preghiera, le braccia alzate, diventano la più sincera calligrafia di esistenze femminili schiacciate dalla violenza. Ecuba porta su di sé tutta la dignità ferita che non muore, tutta la fatica di essere nonostante tutto, la devastante sofferenza di una vita che continua a perdere terreno; e non le rimane altro che occupare il proprio spazio rimasto con una fiera verticalità. Si piega, si contorce come le rane galvaniche, viene parlata dalle sue parole, mentre il corpo, ed insieme i silenzi, gli atti mancati fonetici di freudiana memoria, fanno sentire tutta la verità di un inconscio che non è più quello dell’interprete, e nemmeno del personaggio: è quello collettivo di tutti noi, che vorrebbe che ogni fonema diventasse una dura pietra da lanciare.

Cassandra si ribella, prima di tutto, alla monumentalità della parola; si scrolla di dosso tutta, ma proprio tutta, la polvere fonetica, e agisce, in equilibrio da funambolo, sul filo sottilissimo della follia. Vede oltre il presente, oltre sé, oltre lo spazio scenico, ed oltre la platea. E la percezione visiva è fatalmente più veloce delle parole che la possono raccontare; perciò deve correre, correre maledettamente, questa fanciulla, per star dietro alle sue visioni, per fare parola del divino che è in lei, frainteso come pazzia. Porta su di sé, sulle proprie gambe, il rubro colore della violenza, del femminile eternamente violato, del fiore umiliato e calpestato che, ancora, riprende tutta la forza del suo colore e del profumo, malgrado il suo essere stato strappato e schiacciato. Andromaca soffre, o meglio, giocando tragicamente con le parole, s’offre al dolore più grande e più indicibile. In questo caso, le parole non possono che rarefarsi.

Immagine dello spettacolo Le Troiane

Diventano spinose, fanno sanguinare idealmente la bocca; la laringe si contrae, si squarcia, ogni volta che genera un suono. E’ la madre amputata nel suo più stretto vincolo affettivo, presente in ogni conflitto, che ci sfila davanti agli occhi nel racconto per immagini dell’ennesimo speciale televisivo. Non ci sono parole da aggiungere perché, in questo caso, vince nettamente l’insensata violenza della guerra: gioco, set, partita. Mentre Elena si gioca le sue ultime carte di seduzione con un Menelao nascosto dietro degli occhiali da sole, per cercare di regalare, al mito della sua militaresca dittatura, come canterebbe Battiato, del “sintomatico mistero”. Ormai, il meccanismo della guerra e della post guerra vive di vita propria, si dà la carica da solo; e persino Elena perde la sua centralità. E’ una memoria, una traccia, un dato storico: combatte, perciò, si agita perché le sia riconosciuta la sua forma vivente, la sua corporalità.

Ma finisce triturata dalle asciutte, aride, taglienti parole di un coniuge che, ormai, sembra provare maggiore piacere erotico nel gioco sadico della guerra. Taltibio mangia rumorosamente, potrebbe essere il mister Hyde del sergente Garcia, con la goffa caporaleschità totoiana, di un uomo qualunque con un grado sulle spalle. Sancho Panza ha smesso di seguire l’idealità donchisciottesca, e preferisce tirare a campare nel gioco dei potenti; tanto, ci sarà sempre una razione in più per lui, e si potrà sempre fare un buco in più al suo cinturone. Il coro, concentrato, essenzializzato in due interpreti, cerca di contrappuntare il dolore di Andromaca e delle altre donne della tragedia. Sta un passo indietro, con dignitosa umiltà; abbraccia con le parole, ma lo fa piano, per paura di fare male. In fondo, le Troiane sono il pianto di un bambino “mai nato”, o meglio “mai cresciuto, mai vissuto veramente”. Signori, toglietevi il cappello, perché questa è vera poesia tragica.

Immagine dello spettacolo Le Troiane

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Otello ovvero dal Vangelo Secondo Jago – Recensione teatro

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Immagine della recensione dello spettcolo Otello

Nell’ambito della rassegna teatrale de IL POLITEATRO, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Otello ovvero dal Vangelo Secondo Jago, con Enrica Chiurazzi, Fabrizio Kofler, Clara Mori, Manfredi Pedone, Massimo Sabet. La regia è firmata da Massimo Sabet. La produzione è a cura de Il Faro Teatrale.

Jago è, da sempre, il buñueliano oscuro oggetto del desiderio, l’inconscio della storia, con regole che la ragione non conosce; Shakespeare sembra aver regalato la meravigliosa possibilità, in questo lavoro, di vedere un personaggio normalmente nascosto, invisibile. Al pari della divinità greca Ananke, di solito, un irresistibile campo gravitazionale trascina nella sua orbita la storia, i personaggi, e, insieme a essi, la mano dell’autore che li scrive. Stavolta, invece, questa energia – il più delle volte scomoda, ma terribilmente necessaria – ha una forma. Il tradimento di Jago ha origini etimologiche: ovvero il “tradere”, il portare la vicenda al di là dell’isola di Cipro, oltre i confini del dicibile, consumando tutte le possibili parole, macchinazioni, come potrebbe fare un’irrisolvibile koan del buddhismo zen rinzai. Perché si compia il salto quantico, perché si vada a uno stato superiore al di là della mente duale, la catarsi deve avvenire, e la vendetta divina compiersi, per essere, anch’essa, superata.

Lo sa bene il regista e protagonista di questa pièce, Massimo Sabet, nel mostrarci questo angelo caduto che vola male, che zampetta, similmente all’albatros di Baudelaire, nel mondo prosaico descritto dalla vicenda. Jago vede il fatale disfarsi della seta dell’innocenza di ogni possibile fazzoletto; diventa il Socrate che sa di non sapere, ed accetta che la cicuta che paralizzerà la storia sgorghi dalle mani del Moro. Sin dall’inizio, il gioco tragico è dichiarato: la quarta parete è tirata giù a colpi di piccone, e gli a parte, i momenti-verità dei personaggi, sono spietati e necessari camera look, sguardi in macchina, rivolti alla platea che guarda, voyeuristicamente, la fenomenologia di un amore. Giuda deve fare quello che va fatto; il villain deve creare dialettica, contrasto, interpretando il suo ruolo fino alle estreme conseguenze, per il bene della storia, e per il suo male.

Immagine della recensione dello spettacolo Otello

Sabet è uno Jago per cui si prova compassione, e questa intuizione lo salva dal rischio di serialità interpretativa, ermeneutica di questo personaggio. Ha una dimensione metateatrale, che permette di vedere le sue dolorose intenzioni devianti in ogni singolo momento. Le linee coreografiche morbide di certi movimenti, i giri da derviscio vogliono esprimere quel momento di indicibile conciliazione tra il reale e l’irrazionale; mentre, davanti alla grande vela scenografica, parete serica di platoniana memoria, le ombre vengono, giustamente, trattate come cosa salda. Non se ne abbia a dispiacere Bene, se in questa pièce si sente l’odore della divinità, di un sacro che va ricercato, andando fino al ghiaccio in cui è sepolto Lucifero. L’odore della carne che si lacera, che si spacca, permettendo all’ansia di denunciare la sua tragica cattività. Sabet si immola come un Cristo mancato, ascetico al pari di un monaco orientale, tagliando la scena con il suo passo.

E pare un Woyzeck che rasoia il suo cammino, nella sua frenetica sfida al tempo stesso. Otello, interpretato da Fabrizio Kofler, mostra meravigliosamente il passaggio spirituale, emotivo, dalla pace alla guerra, dal sorriso dell’amante alla smorfia della  gelosia. I suoi fonemi, graffiati, erosi dalla caustica onda di una passionalità che, via via, si fa tossica, sono la cartina di tornasole della psicologia del personaggio. Anche lui ha una specie di meta-coscienza, di cognizione, brechtianamente straniata, del dolore. Una mente che, dovendo mentire, si duplica, si terzopersonalizza, per mostrare quella lacrima sospesa, piccola, ma enorme; quella goccia divina di dolorosa verità, che, per un istante, macchia di rosa la vastità dell’oceano di tutti i possibili significati. Manfredi Pedone è un Cassio illuminato da lampi di consapevolezza, che fa più terribilmente tragico il suo giocato; il suo essere parte dalla tela del linguaggio di Jago.

Immagine della recensione di Otello

Esprime il suo sé narrato da parole altrui, il suo impossibile cercare un proprio etereo, fatuo, fantasma di libertà, di autodeterminazione. Clara Mori è la moglie di Jago, il suo doppio femminile. Ride, piange, porta parole di importante saggezza muliebre; è corpo e, insieme, anima, in fonemi che ne rappresentano l’esatta sovrimpressione. Enrica Chiurazzi è una Desdemona che scorre lieve, come la seta del suo fazzoletto, nello svolgersi di tutta la tragedia; incede con una leggerezza quasi metafisica, e, via via, si impiomba, ed è impiombata dalla gelosia del Moro. Anche lei tende, fatalmente, alla sua verità, che sta ben al di là delle parole. Il regista fa davvero tesoro della versione cinematografica pasoliniana della tragedia, Che cosa sono le nuvole: la verità sta dentro, ma bisogna far silenzio per sentirla, come una geniale intuizione, un rumore di fondo in un assordante tacere. Questo Jago dà un senso definitivo al suo finale tacere.

Dà sostanza alla sua decisione di lasciare che sia, come direbbero i Beatles; ha consumato ogni potenziale di azione e di verbalità, e diventa un fiocco di neve, che non cade da nessuna parte. Offre, anzitempo, una stupenda definizione di quello che sarà l’inconscio freudiano. E la trova dandogli direttamente, in prima persona , la parola: “Servendo Otello, servo me stesso”. Si trasforma non in un singolo inconscio, bensì in un inconscio collettivo; una zona della psicologia del profondo, in cui giacciono le croci in remissione di tutti i nostri peccati, e dove ci si trova ad essere sia la mano del legionario che inchioda, che quella del Cristo inchiodato. Jago, nel finale, in cui osserva il monumento funebre di carne che ha creato, e che intravedeva nel marmo fin dall’inizio, risolve finalmente il seguente koan: che rumore fa una mano che applaude? E, questa risoluzione, la si sente un attimo prima che esplodano gli applausi concreti della platea.

Immagine della recensione di Otello

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Tip Tap Story – Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo tip tap story

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Tip Tap Story con Luca Mattioli, in arte Lukelly, la regia è curata da Sergio Scorzillo.

Parlare in scena di tip  tap, fatalmente, diventa farlo, come se si accumulasse una sorta di carica elettrica, energetica, in corpo, o meglio un surplus di anima che deve necessariamente vivere in un ritmo, scaricarsi in quel suono, che fa del piede bacchetta, e del pavimento pelle di tamburo. Tutto questo il protagonista di questa pièce, Luca Mattioli, in arte Lukelly, lo sa bene, e si presenta in scena in punta di piedi, con cuore leggero, pronto a farsi tutto questa danza, capace di sommare al suo interno, le latitudini dei ritmi africani e la debordante gioia del clog irlandese. Sarà per questo che, assistendo ad una perfomance di tip tap, ci si sente trascinati da un vortice di emozioni forti, di sorrisi capaci di far piegare le labbra in una curva gentile, anche all’esistenza più seriosa ed austera. Ci si sente, dalla parte del pubblico, una sorta di Arianna.

E, proprio come lei,  ci si ritrova travolti dall’onda coreutica di Bacco e del suo seguito. E lo swing è dato da quel ritmo, quel ticchettare dei tasti di un’umanissima macchina da scrivere sopra il foglio bianco del palcoscenico, di questa irresistibile, e faticosissima, danza. Ecco, muovere i piedi equivale qui a scrivere un racconto, dando al proprio creare lo stesso fraseggio emotivo che si sta costruendo, si viene a creare un’affinità elettiva tra il piede ed il pavimento, un gioco fatto di presenza e di assenza. Tutte le filosofie, tutti i possibili mondi sono compresi in questo gioco, c’è la fisica e la metafisica, c’è l’immanente e il trascendente; questa certezza vive in certi salti dove persino la forza di gravità smette di essere una costante, e diviene una semplice possibilità. E’ una pioggia di percussioni, la stessa pioggia  che scorre sul fondo della scena, di fronte al memorabile danzare di Gene Kelly, che canta sotto la pioggia.

Immagine della recensione dello spettacolo tip tap story

Sembra, e la pellicola trasforma, in effetti, il sembrare in essere, che non ci sia stato un prima o che non ci sarà un dopo, ma che, tolto pezzo a pezzo tutto il possibile passato e tutto il possibile futuro, rimanga un incorporeo, eppure vivissimo, presente di quella coreografia così necessaria, così irresistibile. Diventa il modo più diretto, più immediato, di esprimere una potentissima joie de vivre, in un rito di vita che ne esprime l’essenza. Il protagonista non può far altro che riprodurla consumando, spremendo letteralmente il suo corpo, goccia di sudore dopo goccia; e con la fronte rorida, rubando come un ladro galantuomo, anche l’aria che non c’è, per i sui generosi polmoni, sorride con amorevole gentilezza ai capitali generosi di applausi del suo pubblico. Scrivo “suo” perché diventa suo, viene portato in una sorta di stato alterato di coscienza, di ipnotico rito sciamanico.

Questo atto è in grado di piegare il tic tac del tempo nello spazio incurvato, non euclideo, del tip tap. Ma Lukelly, parla, introduce, e il suoi fonemi sono una luce che non ferisce gli occhi, una di quelle luci che si fanno d’atmosfera, come se sulla sua laringe mettesse un delicatissimo foulard. Nessun bronzo nella sua voce, solo la volontà di esprimere, a parole, i segni di questa sensazionale passione, mostrando spezzoni di film, ballandoci sopra in un una sovrapposizione stupenda. Le ombre diventano cosa salda, persino quelle plumbee e tristi della caverna platonica si mettono a fischiettare, a tippettare. Gioca con un bastone, una bacchetta delle magie di Cotrone, che qui diventa un modo di creare una coreutica punteggiatura. Il regista Sergio Scorzillo, presente in scena come “deus in machina“, per organizzare tutta la téchne di questo spettacolo, guarda con fascinazione la sua creatura.

Immagine della recensione dello spettacolo Tip Tap Story

Osserva, con la purezza dello sguardo d’un bimbo, questo teatro danzante così antico, eppure così vicino a noi, fino a diventare un’arteria del nostro stesso cuore. Riesce a regalarci la felice intuizione di aver voluto concentrare  tutto il rito sul coro, ovvero sul corifeo e sul ritmo con cui entra in scena, anzi con cui è in scena. Parla, interagisce, si fa ponte tra il palcoscenico e la platea. Ha mani generose, robuste, mani da esperta levatrice in grado di cavar fuori le migliori anime dei personaggi. Oltre a regista, potrebbe tranquillamente essere considerato primo spettatore di questo spettacolo. Indica la via per vivere, letteralmente, una sorta di educazione sentimentale, di flaubertiana memoria. Incarna la visione di un monologo ballato e ballante, nel quale le parole, compreso il loro formarsi, il battere della lingua, ora sul palato ora sui denti, trovano la loro catarsi, la loro forma finale, nel battere la punta e il tacco dei piedi sul pavimento. E’ inevitabile, come la risoluzione di una formula algebrica, che questa danza faccia sbocciare fiori di gaiezza sia sul viso dell’interprete, sia in chi lo guarda e lo ascolta. Nel tip tap l’interprete diviene una sorta di boxeur che assalta, con tecnica, con pugni di piedi gentili, che vola al pari di una farfalla, e punge come un’ape, come ricorda, il pugile Muhammad Alì/Cassius Clay. E l’avversario di sempre è l’eterna terra che abbiamo sotto i piedi, sempre idealmente da dissodare, da adattare a pavimento sul quale poter camminare, da compattare, da stimolare, come fa un gatto col suo pigia- pigia sulle mammelle della mamma gatta. Tutto questo miracolo accade nei piedi del protagonista che smettono di essere dei semplici piedi, e diventano le bacchette di legno nelle mani esperte di un batterista jazz, il quale sa che è arrivato il momento del suo monologo. Applausi.

Immagine della recensione dello spettacolo Tip Tap Story
Ph. Massimo Mancini art director

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Mater – Recensione teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Mater

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Mater. Il progetto drammaturgico e la regia sono curati da Mino Manni e Marta Ossoli, con il contributo di Fabrizio Kofler. L’interprete è Diana Ceni.

Diana Ceni ha un sorriso che vale tutta una summa theologiae; ha un quarto di luna appoggiato sul viso, a illuminare la notte della coscienza. Sorride, e l’orizzonte di quel sorridere è quasi metafisico. Sembra un’illuminazione interiore, stato dell’essere che filtra da un pertugio, facendo venire voglia, allo spettatore, di aprire quella porta, per vedere pienamente la luce. Quell’incurvatura ha qualcosa di dostoevskjiano, di mariano: emana una misercordia, un senso profondo di compassione per l’altro da sé.  Era fatale, sillogisticamente sicuro, che, prima o poi, da attrice, si confrontasse con l’archetipo della madre, della Maria evangelica. Ma, qui, non incarna una Madonna qualunque, un ritrattino agiografico, di fronte al quale appoggiare un lumino commemorativo; piuttosto, un personaggio con il codice genetico emotivo, psichico, spirituale che potrebbe appartenere a una creatura testoriana. Ѐ soprattutto carne, carne mischiata, fatalmente impastata e indistinguibile dal vento dell’anima che la agita.

E il dolore nelle viscere è più vivo; si amplifica come un requiem, come un’opera sinfonica suonata da tutto il corpo, che si torce, si piega, divenendo calligrafia della sofferenza, frase esistenziale grassettata che arriva, come una freccia, dritta dritta fino al cielo, per farlo sanguinare. La madre del dolore si alterna, meravigliosamente, con quella della tenerezza riservata al bimbo in fasce. In un tempo che non è più cronologico, ma è quello della memoria interiore, che fa andare, a suo piacimento, avanti e indietro la pellicola dei fatti, presente e passato si sovrappongono, come momenti della stessa coscienza, e l’ideale madeleine proustiana consumata dalla protagonista sa, terribilmente, di sale. L’azione è portata nella cascina, nella verità di un quarto stato concreto, vicino alla terra più del Calibano de La Tempesta di Shakespeare.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

In un grammelot evocante i sapori dei paesi che sfilano lungo i finestrini delle Nord, quando ancora ci si sedeva sul duro legno, la madre pare uscita dal pennello rabbioso di un pittore naїf, e incarna, con crescente intensità, il ruggito della tigre di Ligabue. Ascoltando questi fonemi così materici, così fantasticamente modellati sulle emozioni loro genitrici, si è presi da una sorta di incantamento, di allucinazione olfattiva. Sembra quasi di poter sentire gli odori rurali, dell’aia, delle bestie che alitano, combattendo, con la coda, i tafani nella stalla; ma anche l’odore dell’aria che si lascia contaminare dalla terra, creando la metafora perfetta dell’essere umano, lì, nell’impossibile via di mezzo tra la materia e il cielo. E poi c’è l’urlo, fatto di assordante silenzio, in cui mandibola e mascella lottano per rompere le catene che le tengono unite.

Impallidisce, l’Urlo di Munch, di fronte al dolore di una madre che perde il figlio, e che diventa tragica poesia. D’altra parte, è stata la poetessa Alda Merini a ricordarci che il motore della poesia avviene da questo straziante strappo. La Sindone espressionista, impressa su di un telo, lascia esplodere i suoi colori fatti di terra e di sangue raggrumato, traducendo in forma visiva il bachiano Vangelo secondo Matteo (parte, fra l’altro, della colonna sonora dello spettacolo). Diventa impronta non solo di un corpo, ma di una sofferenza, che, per rendere pienamente l’idea di sé, si fa tanto cosa sensibile, uscendo dal territorio linguistico, quanto traccia tangibile, annunciandosi agli spettatori in tutta la sua tragicità. La Passione è già avvenuta, il rovesciamento dell’antico dramma si è compiuto; a sigillo di ogni possibile tragedia, qui è il dio a sacrificarsi, chiudendo i conti con la dike.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

La divinità si è carrucolata in scena fin dall’inizio della vicenda, e chiede all’essere umano di diventare il nuovo deus ex machina. Mentre la madre diventa tutta un cuore dolorante; perfino l’anima si fa muscolo cardiaco. E tra gli atri ed i ventricoli, in quell’ambiente  perennemente umido di sangue, si ramificano nervi, che regalano un secondo cervello, una seconda mente a questa palpitante creatura. E questa ragione cardiaca non solo non è conosciuta dall’altra ragione, a più alte latitudini del collo, ma nemmeno da Pascal stesso. Diana, inoltre, in certi momenti, per utilizzare un’espressione dantesca, sembra letteralmente trasumanare; come posseduta da un daimon, entra in trance, e si ha la netta sensazione che parli sotto la dettatura di un invisibile angelo dionisiaco. In quei momenti, i suoi occhi sono illuminati da una luce del tutto particolare e unica, mentre la carne si fa marmo della poesia.

E quanto i suoi respiri sono essi stessi musica, anzi la sua più alta espressione, come tacet presenti sullo spartito del copione. E’ come se trattenesse nei polmoni il tempo suo e degli spettatori. Ansima l’attrice, fatica, ma sempre con gioia e serenità; si lascia attraversare da questa corrente impietosa e tumultuosa, abbandonandovisi con la grazia angelica di un’Ofelia adagiata nel suo letto liquido. Trasforma il sudario nelle fasce di un bimbo, e poi nel tableau vivant della Pietà michelangiolesca. E c’è buono, come canta Mina, che al momento giusto sa diventare l’altra, e abbraccia selvaggiamente, con la sua voce, con il suo sguardo, l’intera platea. E alla fine torna, sui generosi applausi, quel sorriso che si mangia tutto il mondo in un boccone, che è tutto il senso di una vita, al pari del fiore di Loto mostrato dal Buddha, come miglior risposta a qualunque dubbio.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

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La Lupa – Recensione teatro

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Immagine della recensione della Lupa

Nell’ambito della rassegna teatrale di STN-Studionovecento, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La Lupa, con Ailin Tracchia, Allegra D’Imporzano, Andrea Bonzi, Andrea Pella, Angelica Topolino, Bianca Cerro, Bianca del Basso, Giacomo Piseri, Lorenzo Fonti e Valentina Sangalli. La drammaturgia (liberamente tratta da Giovanni Verga) e la regia sono a cura di Marco. M. Pernich.

La Lupa non è un semplice personaggio, non è soltanto l’estrema incarnazione dell’ennesima Medea: è una categoria dell’anima, uno stato dell’essere, la quintessenza di Dioniso e, quindi, dello spirito del teatro. E Dioniso è, a sua volta, quello che si potrebbe definire una sorta di anti-divinità, nel rifiuto di adeguarsi passivamente al Fato, all’ineluttabile metafisico. Insomma, la Lupa è quanto di meglio si possa trovare, per ricreare lo spirito della stessa tragedia che viveva nel teatro di Dioniso. Il regista, Marco Pernich, trasforma la scena in un’orchestra e crea una skenè, ritrovando la parola che, con la propria libertaria divinità, sfida quella degli altri Numi. La protagonista si muove come una creatura a quattro zampe, aracnica, vissuta da un divino irriverente che si esprime, in pieno, nella carne. Sembra vivere, pervasa da una forza irresistibile, in una cerimonia di Candomblè, i cui partecipanti, danzando e muovendosi  freneticamente, sono abitati dalle divinità.

Come sarebbe piaciuto a Fersen, questo lavoro teatrale. Non più un approccio teologico alla scena, bensì teurgico, in cui i cieli siano dichiarati disabitati, e l’umano si apra a un disperato e disperante fiato “numinoso”.  La Lupa è una dea madre, un’Ecate, un’Astarte , un’Iside, una Kali: è l’eterno femminino, necessariamente umorale e carnale. Scopre i seni come gesto rituale, apotropaico, che la trasforma in un archetipo, in un segno di una poesia profondamente sensoriale, percettiva. Fa l’amore non solo con il corpo, ma con i pensieri, con i gesti, con le parole, rivendicando un approccio “orgasmico” con la realtà; se gli dèi condannano alla fine, che sia, come la definiscono i francesi, una douce mort. La figlia, apparentemente passiva, è, in realtà, l’elemento in grado di scardinare i meccanismi classici della tragedia. La sua inazione è più una rivendicazione esistenziale, volontà di porsi all’estremo opposto rispetto alla madre.

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

Ecco perché rifiuta il rito del capro espiatorio da compiere sulla madre; ecco perché, con la potenza di un Bartleby melvilliano, dichiara il suo inemendabile “avrei preferenza di no”. L’uomo della Lupa è il classico eroe tragico sofocleo, giocato a dadi dagli dèi: ora libero, ora prigioniero, ora ateo materialista, ora credente penitente, pronto a sfilare in processione. Sua sorella e il rispettivo compagno cercano di sfuggire all’irresistibile forza centripeta di questa storia, all’Ananke che si stringe intorno alla gola della Lupa; riescono ad accomiatarsi nel finale, sparendo dalla storia. Escono dalla luce del cerchio di Dioniso, perché si prepari il woyzeckiano finale, illuminato dalla luce rossa di un coltello. Il coro delle tre Parche, intanto, fila la storia, la osserva, la metabolizza, la normalizza nel filato delle parole e del testo scenico. Si animano in un rito arcaico, profondamente e deliberatamente pagano.

Rappresenta la loro luna nera, la parte oscura delle comari, che guardano la storia intorno a loro come regine del tua culpa. Niente è davvero come sembra: tutto scorre, i sentimenti, le personalità, ed Eraclito regna incontrastato. Il prete cerca di rivestire i panni di uno stanco raisonneur, che proprio fa fatica a far stare il quadrato della razionalità apollinea nel cerchio di Dioniso. Mentre, sul fondo della scena, il punto di fuga è rappresentato da due mezzibusti bianchi: vestigia di una metafisica pittorica, dechirichiana, simboli del maschile e del femminile che hanno abbandonato il tao del nero contrapposto al bianco. Ogni scena è un tableau vivant, un quadro in movimento; una ricca  iconografia fatta, prima di tutto, di immagini, di distanze e vicinanze che si giocano, ogni volta, in forma differente. Gli dèi si negano e si abiurano, sconfessandosi, perché possano nascere in altre forme.

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

Si tiene conto della lezione di Dioniso, pronto, come la fenice, a rinascere dalle proprie ceneri. La tragedia è una summa del grande triumvirato greco: Eschilo nel dinamismo irresistibile dei personaggi; Sofocle nel terribile gioco del gatto col topo, compiuto dal Fato nei confronti dell’umano; Euripide, infine, nella dialettica, nella scoperta delle voragini psicologiche dei personaggi, nel comprendere che ci sono più cose nell’umano che in cielo e in terra, rovesciando l’assunto di Polonio. Le luci tagliano, delineano, questi marmi umani, viventi. Una vampa di irrazionalità, di passione, splendidamente valorizzata, nei pieni orchestrali, da una luce rosso sangue. I luoghi deputati dell’azione hanno la caratteristica della circolarità, dell’eterno ritorno; raccolgono i personaggi come i numeri sul quadrante dell’orologio, mentre i corpi tagliano come lancette il tempo, lo sfibrano, lo accorciano o lo allungano.

Sono come le gambe di Woyzeck, un rasoio pronto a tagliare la gola al placido scorrere delle cose. Il maresciallo tenta di trovare una normalità che non esiste, e non ha nemmeno un soldato con cui lagnarsi, mentre si fa fare la barba. La processione religiosa è un istante meravigliosamente congelato nella calura siciliana: un falso movimento, un’immagine che sta per muoversi, minaccia di farlo, ma non lo fa. La rappresentazione iconica del sacro non riesce a muovere un passo, mentre la Lupa ne muove molti, uno dopo l’altro. Incarna la convinzione granitica di un’Antigone, la sensualità magico-misterica di una scatenata Medea, e porta in sé un’intera legione di Baccanti, pronte a consumare d’amore la carne, fino allo smembramento. E, proprio come Bocca di rosa di De Andrè, porta a spasso per il paese l’amore sacro, esattamente coincidente con quello profano. Signore e signori, la tragedia è servita!

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

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La Monaca di Monza alias Suor Virginia Maria alias Marianna de Leyva – Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo La Monaca di Monza

Nell’ambito della stagione teatrale 2022/2023 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La monaca di Monza alias Suor Virginia Maria alias Marianna de Leyva. La drammaurgia e la regia sono a cura di Annig Raimondi, che interpreta anche la parte della protagonista. Con lei, in scena, Alessandro Pazzi ed Eliel Ferreira de Solusa. Il testo comprende scritti di Manzoni, Diderot, Stendhal e Testori, nonché atti del processo.

C’è un’implacabile geometria di spazi e di luci, ad attendere lo spettatore. Un Mondrian essenziale, volto a carpire i segreti pitagorici, matematici di un’ineffabile vicenda umana. L’intuizione iniziale di questo spettacolo è, già di per sé, oltremodo efficace: lo spirito apollineo della scenografia e dell’illuminotecnica si incontra, e si scontra, con lo spirito dionisiaco, ovvero l’alta temperatura emotiva espressa nel processo della Monaca di Monza. il mos geometricus delle regie di Bob Wilson si fonde, felicemente, con la lava della parola testoriana. Nei fatali tableaux vivants che si formano, l’uno dopo l’altro, con precisione millimetrica, nell’ideale galleria pittorica di un martirio volutamente deviante e deviato, le parole della protagonista sfuggono dalla tela, la imbrattano, la tagliano, come rasoiate di un Fontana terribilmente inferocito. L’attrice usa il cappuccio come una maschera, o meglio come le maschere di un personaggio, ben al di la’ delle latitudini pirandelliane.

E, per scriverla alla Oscar Wilde, la verità è una menzogna che non è ancora stata scoperta. I volti, le espressioni, i toni della voce sono molto più che maschere: rappresentano le sovraimpressioni continue di una personalità, che scorre più fatale ed implacabile del fiume di Eraclito. Come la Regina degli scacchi, la Monaca si muove in ogni direzione, violando la severità geometrica dei passi e dei vettori. Il fondale diviso, in forma manichea, tra luce e ombra, tra puro colore e forma, sintetizza, anzi arriva a costituire, una panorama astratto, metafisico; esprime l’enigma di un essere umano in cui la cartina di tornasole del giudizio terreno, sia esso etico, giuridico o canonico, letteralmente impazzisce, mostrandoci ora il rosso di un ambiente acido, ora tinte bluastre di un ambiente alcalino. A Suor Virginia Maria viene, in questo lavoro, pienamente, visibilmente riconosciuta la patente di personaggio tragico, generato da un ideale Euripide.

Il destino la lega, e, con la stessa velocità, lei inganna i nodi che la stringono, giocando una partita contro la dike, l’antica giustizia divina, e tutt’altro che da perdente. Il processo ha tutta la parvenza di un tentativo di lunga seduta psicanalitica, in cui si cerca di arrivare all’impossibile inconscio della protagonista. Freud diceva che l’inconscio è quel signore davanti a me, di spalle, di cui posso vedere solamente la nuca; e non a caso l’attrice, durante il processo, dà la schiena ai suoi giudici, che non riescono a coglierne l’ineffabile essenza, e la condannano ad essere murata viva. Ma anche questo è un falso finale: la Monaca di Monza avrà il suo riscatto, e riuscirà, a distanza di anni, a farsi liberare. Ancora una volta dà scacco matto, o, almeno, arriva a patta con il dio della tragedia. La drammaturgia riesce a creare una riuscita policromia.

Immagine della recensione dello spettacolo La Monaca di MOnza

Si attinge ai colori storici del Manzoni, alla carne, febbricitante di passione, di Testori, ai paradossi attoriali diderotiani e alla profumata essenzialità stilistica di Stendhal. Annig  Raimondi, che cura anche la regia e la drammaturgia, è letteralmente un mistero che cammina, anzi, incede con solennità sulla scena. I suoi fonemi sono presi giù, nel profondo ventre di Gea; le sue parole, come le pietre di Meister Eckhart, sono Dio, ma non sanno di esserlo. Suona secondo tutti i registri, tutte le partiture di un personaggio che sfugge decisamente a qualunque categorizzazione. Annig suona la sua anima come farebbe l’orchestra psichica di Pessoa, donando una persona per ogni singolo stato d’animo. Alessandro Pazzi è un Vicario che domanda, interroga con la caparbietà e con la curiosità di un Orazio shakespeariano: e non può non concludere che c’è del metodo, in questa apparente follia.

Incarna, simbolicamente, una ragione che si sforza, invano, di sciogliere questa sciarada, questa irrisolvibile equazione umana. Eliel Ferreira de Sousa porta con sé, nell’accento latino, il caldo brivido di paura, prima di tutto fonetica, di un Inquisitore, di una legge che alza la voce perché, troppo spesso, è dura d’orecchi. Insieme, hanno la capacità di inserirsi nel paesaggio geometrico della scena, dove le luci battagliano continuamente con il buio, e scorrono sicuri, come le biglie sul tappeto verde di un biliardo. Nella distanza tra i personaggi che colonizzano ogni punto di questa scenografia, si giocano partite verbali incredibili, dove le parole descrivono curve, rotondità, cerchi dionisiaci, in grado di mettere in discussione continua la rigidità geometrica. Imperiale il momento in cui viene trasportata sulla sedia dotata di rotelle, metafora di una dea in machina: un destino diversamente abile, che si cerca, meccanicamente, di istradare sui binari del cosiddetto buonsenso, e della morale comune.

La vita, in questa Monaca di Monza, decisamente vive, dando mostra di sé e del suo cercarsi, trovarsi, inventarsi di volta in volta. Ora spaventata, ora severa e azzimata, ora combattiva e pronta ad infiammarsi, ora avvocatessa della sua causa, ora giudice: sempre, riesce a cogliere l’adesso, il singolo istante psichico del personaggio, Rispetto al basso continuo dei suoi interlocutori, esprime una melodia complessa, una fuga bachiana, un canone in cui le voci di una stessa coscienza si sovrappongono, per formare un coro tragico. Si staglia, unica ombra viva, di fronte a una moderna caverna di Platone; insieme apparenza e sostanza, oscurità e luce, che parla, nell’ultima fatale dissolvenza in nero alla platea, come essere vivo e vitale, in grado di aprirci varchi di dubbio e di emozione sincera . Sono tutti meritati i generosi applausi.

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