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Danilo Caravà - page 3

Danilo Caravà ha 86 articoli pubblicati.

Incontrando il signor G. – Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Incontrando il signor G.

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Incontrando il signor G. L’omaggio all’originale, e unico, teatro-canzone di Gaber è portato in scena da Enrico Ballardini e Riccardo Dell’Orfano.

Ci vogliono due polmoni speciali, per portare in scena il signor G; anzi, occorre anche un diaframma che si gonfi di generoso vento interpretativo, come a condurre un veliero. Sì, perché Gaber va oltre Brecht, e crea uno sprechgesang tutto suo, un meticciato unico e incredibile tra parola e canzone, tra prosa e poesia. E i protagonisti di questo spettacolo hanno tutte le carte in regola per vincere questa sfida. Come i due legionari del De bello gallico, si danno la mano l’un altro, si sostengono a vicenda, si passano la palla verbale come fantasisti brasiliani, maestri nel gioco carioca. E, sin dalle prime battute, in platea si ha l’impressione di bere un vino forte, tannico, corposo, uno di quelli che ti scaldano subito le guance, il cuore, la testa. Mettono entrambi l’anima, e tutta la loro carne, nell’interpretazione.

E questo fa, di gran lunga, la differenza. Dionisiaci per vocazione, apollinei al momento giusto, quando la carrettella teatrale deve arrivare in cima ed esitare un attimo, giusto prima di un meritato applauso. E poi, c’è la musica del signor G; anche qui, gli interpreti danno gran prova cantando nell’unico modo possibile, ossia con sincerità, e mettendo nella voce quella luce che va trovata giù, giù, nel fondo di ogni possibile intenzione. Una fisarmonica diventa tutto un mondo, un girotondo, una giravolta, un’intera sala da ballo gioiosa e chiassosa. Si presta meravigliosamente a raccontare le emozioni umane a tutte le latitudini, coprendo l’intero spettro cardiaco: dalla malinconia, alla risata piena, di pancia, divertita e goduta. Qui non si “deliba” uno spettacolo con forchettine, coltellini e posateria varia; qui, signore e signori, si mangia con le mani, si sente il gusto, si tocca, si percepisce.

Immagine della recensione dello spettacolo Incontrando il signor G.

Nel teatro più riuscito, come questo, avviene un particolare miracolo, per cui è come se ci fosse una sorta di ipoteca tattile, ovvero la possibilità che, prima o poi, l’interprete tocchi, letteralmente, lo spettatore (e anche questo accade). E’ unica e irripetibile la magia di questo spettacolo, in grado di farti sentire la carne, i corpi, prima ancora che possano, in qualche modo, sfiorarti. E, ancor più, è un miracolo il farsi cosa salda della parola, recitata e cantata, essa stessa interprete del corpo; cosa viva e vitale, pronta a esplodere, come una supernova, in faccia a ogni spettatore. L’operazione è più che riuscita, visto che riesce davvero a toccare gli atri ed i ventricoli del teatro-canzone di Gaber. Non si limitano ad imitarlo, a farne una copia fotostatica, un cliché stanco e ripetitivo; piuttosto, lo elettrificano con la loro interpretazione, lo innervano.

Lo riempiono di quello spirito caustico, satirico, mordente del signor G, che sapeva leggere la società, e l’individuo, con una capacità di penetrazione ineguagliata. E’ talmente entrato nell’immaginario collettivo, che è irrinunciabile, da parte del pubblico, unirsi al coro della canzone La libertà. A dimostrazione che la parola di Gaber ha il potere di risvegliare qualcosa, in noi, di sonnecchiante ma non intontito, pronto a rivitalizzarsi con gli stimoli giusti. Enrico Ballardini, col suo viso antico, la barba da eroe omerico e il fuoco nello sguardo, è in grado di mesmerizzare immediatamente la platea, e un suo gesto potrebbe essere la formula canonica dell’ipnotizzatore: a me gli occhi, please. Nuota, letteralmente, nel testo e nelle canzoni, e non ha paura di andare dove non si tocca, di bagnarsi, di sporcarsi di parole, di farsele risuonare dentro, di spremerle fino a coglierne l’ultima goccia di senso e di vitalità.

Immagine della recensione dello spettacolo Incontrando il signor G.

Con la chitarra blueseggiante, e una tastiera vintage moogheggiante, costruisce un tessuto sonoro, in grado di donare un valore aggiunto alle canzoni. Riccardo Dell’Orfano, come un guascone dal cuore buono, porta con semplicità il pennacchio cyranesco della sua recitazione; è un Sancho Panza illuminato da un senno speciale, un raisonneur rorido di emozioni. E la sua fisarmonica sembra il naturale prolungamento della sua stessa voce, di tutte quelle emozioni che non ci stanno nelle parole, ma sono immediatamente espresse sui tasti dello strumento. Entrambi respirano con il diaframma, quasi tamburi di guerra, e come respirano; sembrano voler inghiottire il mondo, per poi restituirlo tutto, insieme a loro stessi. La fronte bagnata di sudore, la fatica che si mostra sulle loro camicie, sono testimonianza di un impegno che non viene mai meno per l’intero spettacolo, di una generosità assoluta.

Tutte le cellule dell’interprete, biologiche o spirituali che siano, devono fare la loro parte, per la riuscita dello spettacolo. Tutto il corpo è strumento, anzi orchestra, in grado di aggiungere la propria voce a quella dei due attori. Questo omaggio a Gaber profuma, decisamente, di cuore; si candida ad essere uno spettacolo diverso, altro, capace di risvegliare il senso più profondo di questa particolare forma d’arte scenica. Basta vedere, ascoltare la naturalezza con cui, da un monologo, si passa a una canzone, con una soluzione di continuità in cui non è possibile determinare dove finisca uno, e inizi l’altra. E quel particolare grassettato, quell’umore caldo che anima i fonemi di Gaber, è presente, come non mai, nei due interpreti, che si meritano tutti, ma proprio tutti, gli applausi con cui il pubblico può, catarticamente, tributare loro il giusto riconoscimento.

Immagine dello recensione dello spettacolo In contrando il signor G.

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Stasera si va accapo -Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Stasera si va accapo, con Marilina Giaquinta e Anna Nicoli. L’azione artistica è curata da Paola Brusa, e le musiche sono realizzate da Marco Pagani.

C’è un meraviglioso duetto, nell’opera lirica di Delibes Lakmé, chiamato duetto dei fiori, nel quale due donne si cantano l’anima vicendevolmente, accarezzando l’udito con la seta delle loro voci: ecco, le protagoniste di questo spettacolo hanno riprodotto quelle stesso effetto. Due voci, declinate al femminile, sono la quintessenza dell’umano, con il profumo di una metafisica sottile, lirica, che riesce a intridere di sé ogni ascoltatore. Marilina Giaquinta e Anna Nicoli vivono in scena un’unica ed irripetibile affinità elettiva, un magnifico gioco di specchi della galleria di Versailles, momentaneamente spostata a Milano, in piazza della Repubblica. Sono gioiose baccanti, che vibrano ancora di un rito dionisiaco misterioso, come il terzo uomo aristotelico, che vive in loro; ma, soprattutto, sono e dimostrano, con la loro voce e la loro presenza, tutta l’urgenza, la ribollente magmaticità dell’esserci.

I loro sorrisi, che vivono, nella percezione della platea, in una mesmerizzante soluzione di continuità, riproducono la linea curva dell’arco di Ulisse, in grado di scagliare frecce che ti arrivano fino ai più remoti anditi cardiaci. La scrittura di Marilina è materica, fisica, ha una sua percepibilità da parte di tutti i sensi. La si può toccare, odorare, fiutare; ne potrebbe seguire la scia anche il Gassman cieco di Profumo di donna. Qui si fa tesoro della lezione aristotelica della Poetica: la poesia non è data dalla forma esteriore, ma da quella ipoteca, quella sfida di universalità che sa lanciare, quello squarcio di assoluto che sa trovare tra le pieghe ritorte del linguaggio. L’etologia, l’astronomia, la scienza diventano  una lucente occasione di proporre poesia. Si ritorna, felicemente, ai presocratici. Non a caso l’autrice proviene dalla Sicilia, dalla Magna Grecia, in cui la filosofia era espressa in forma poetica;

Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

basti ricordare Parmenide, Eraclito, Empedocle. E, proprio come quest’ultimo si getta nel ventre del vulcano Etna, così l’autrice si immerge nella lava, nella materia ancora viva e vitale del linguaggio, e la restituisce allo spettatore, in tutto il suo calore e la sua forza. L’amore che qui si canta, è quello, disperato e disperante, necessario, estremo, delle due unità separate dell’essere androgino, che, una volta ritrovate, si abbracciano selvaggiamente, nel desiderio di fondersi. Il corpo diventa la bacchetta del rabdomante lirico, in grado di vibrare decisamente, laddove si trovi una fonte di questo eterno sentimento. Lo spettacolo si arricchisce, si sdoppia, anzi si triplica, attraverso l’intervento di due artisti, che aumentano la percezione sinestetica della pièce. Il musicista e compositore Marco Pagani crea delicatissimi passi di danza sonora, tessuti serici musicali, che frusciano felicemente tra la grazia tersicorea delle parole di questo spettacolo.

La pittura di Paola Brusa è un atto totale del corpo e dell’anima: un quadro di Pollock vivo, materico, trasudante emozioni e pensieri, che si arricchisce di parole, e si lascia scorrere nel fiume eracliteo, mai uguale per due volte, di ogni singola rappresentazione. Anna Nicoli ha ragioni del cuore che nemmeno Pascal conosce: nello sguardo porta la luce del sì alla vita della Molly Bloom joyciana, la curiosità impertinente e giocosa degli angioletti di Raffaello, la tenerezza pudica nel primo bacio dei puttini di Bouguereau. Ascoltarla è come sentire lo scorrere puro di una fonte, la semplicità e l’immediatezza del rumore dell’acqua che lega, nella sua essenza, il visibile e l’invisibile. Porge ogni fonema con delicatezza, come se offrisse, idealmente, fiori eterei  al pubblico. Marilina Giaquinta porta il suo siciliano in dote alle parole che pronuncia, e lo fa liberamente cortocircuitare in un gioco gaddiano,

Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

In questa dimensione il linguaggio si scrolla di dosso tutta l’accademica bronzatura, e tutta la pesante armatura del dover significare in modo univoco . La sua parola è veloce, agile: fa capriole, ha l’argento vivo dell’enfant terrible, ruba grappoli di luce al cielo della poesia, donandoli con generosità. Riesce a ritrovare la forza divulgativa della scienza nella sua poesia, colorandola e sfumandola con nuances tenui; riesce a suonare, parlando, emozionanti pianissimo. Ha, con la sua voce,  lo stesso struggente spirito di Beethoven nel film Amata immortale, che suonava il Chiaro di luna con l’orecchio attaccato al pianoforte, per “sentire” la vibrazione della sua musica. Ecco, l’autrice vuole far sentire le sue parole, vuole ricreare l’atto stesso, il terremoto emotivo che le hanno generate;  le modella, le plasma in corpi sempre cangianti.

Il senso del tatto aleggia in tutto lo spettacolo, come una forza di attrazione misteriosa e invincibile, un desiderio di voler percepire anche con la pelle la poesia, sentirne l’immediatezza corporea, così come sensazioni corporee erano le estasi delle sante e dei santi. E, di nuovo, un misterioso sorriso si palleggia da un’interprete all’altra, contagiando  i due artisti e tutti gli spettatori. Si realizza il miracolo di vedere La dama con l’ermellino condividere il misterioso arcuarsi delle labbra della Gioconda. E’ l’immediata, indeterminata, enigmatica chiosa al bisogno d’amore che viene comunicato in ogni verso poetico. Il lungo applauso finale, qui più che mai, diventa abbraccio, che il pubblico tutto tributa a ogni interprete di questa riuscitissima esperienza.

Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

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Sybil, Una donna divisa tra molteplici esistenze

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

Nell’ambito della stagione teatrale 2022/2023 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Sybil, una donna divisa fra molteplici esistenze. Dramaturg dello spettacolo è Livia Castiglioni. La regia è firmata da Silvia Giulia Mendola. Le interpreti sono Federica Bognetti e Silvia Giulia Mendola. La storia narrata nell’opera si ispira a un caso reale.

Il pensiero, decisamente, recensendo questo spettacolo, va a Pessoa, e a tutta la numerosa orchestra di eteronimi. Non di pseudonimi si tratta, ma veri e propri altri-da-sé, con la patente di riconoscimento di un personale pronome. Sybil, la protagonista di questo lavoro teatrale, incarna un autentico caso psicoterapeutico di personalità multipla: il primo che abbia permesso di cartografare questo fenomeno, e di inserirlo, a buon diritto, nel libro delle psicopatologie. Sybil è ben più di un’ Anna O. di freudiana memoria, Sybil incarna molti personaggi che vogliono obliare il loro autore. Corregge, idealmente, la frase rimbaudiana l’io sé un altro; in l’io sono gli altri, tutta la svariata gamma di embrioni di personalità che ognuno di noi si porta dentro. E’, dunque, fatale che  lo spettacolo si arricchisca di una dimensione profondamente metateatrale, entrando nel vero e proprio cuore di tenebra del lavoro dell’attrice su se stessa.

In quel magma ribollente di subpersonalità, fanno mostra di sé immagini archetipiche, tarocchi junghiani che vivono nella psicologia del profondo. La protagonista dimostra quanto sia vaga e, citando Hillman, vana la fuga dagli dèi, dal momento che questi ultimi sono più vicini a noi della nostra stessa giugulare; sono il nome donato a forze, energie psichiche che, altrimenti, agirebbero attraverso il codice cifrato dell’inconscio. E davvero, sfila davanti alla platea un intero pantheon di personaggi interiori che trovano domicilio in un singolo foglio. Sans papiers della coscienza vigile, clandestini nella terra che dovrebbe essere la loro patria, si raccontano con la struggente tenerezza di una foglia che per un lungo, lunghissimo, istante, prende coscienza della propria precarietà, nella terra autunnale della via verso la guarigione. Come HAL di 2001, queste identità hanno paura di svanire, di morire a se stesse e agli altri, hanno il fiore in bocca pirandelliano.

Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

Chiedono alla psicanalista e, tramite lei, a tutta la platea, di contare i ciuffi d’erba fuori dal teatro, e di cercare di contarne molti, perché quello è il loro tempo di vita. L’intuizione eccezionale che si accende attraverso Sybil è che i personaggi sono animule vagule e blandule, sono delicati quanto bozzoli di seta, fragili e insieme forti, impermanenti quanto e più di noi; ma raccontano, come nessun’altra forza potrebbe raccontare, la poesia definitiva, che fa male, quella rosa che ha le spine, quel dolore che si sublima in un taglio nella tela del nero esistenziale, per lasciare uno squarcio di luce dell’altro, dell’indicibile. Nello scheletro di una stanza, che vagamente richiama un rompicapo irrisolvibile di Escher, avviene un dialogo socratico, in cui Socrate, la psicanalista, deve dismettere l’inamidato setting e cercare altre strade, altre parole per guarire la sua paziente. Questo è il bello delle storie psicanalitiche.

Come aveva genialmente intuito Mishima, questi racconti si candidano naturalmente ad essere delle storie noir, thriller, delle detective story, dove la verità si nasconde dietro il fumo di una sigaretta, si lascia inseguire, depista con falsi indizi, sfugge, si dimena, e poi, catarticamente, si scioglie in un abbraccio, facendo la pace con se stessa e con il resto del mondo. Il trauma che ha frantumato il cristallo dell’io è terribile, superiore a quello che la più cupa tragedia può nascondere dietro la parete della skenè. Gli anticorpi per un male assoluto non possono che essere radicali quanto lo è la malattia: e allora, ecco la fuga dagli dèi, il rocchetto di Hans che si moltiplica in più fili, nel gioco dell’avanti e indietro di molteplici personalità. Se l’io, come ricorda Freud, è un precipitato di cariche oggettive, ha già un’origine nevrotica.

Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

Nasce da una frustrazione; a maggior ragione, ciò vale per gli ego nati allo scopo di sopportare un dolore intollerabile, che non potrebbe essere sorretto da una sola, fragile, identità. Silvia Giulia Mendola è una Sybil in stato di grazia, un essere proteiforme, che modella la sua anima su quella delle varie personalità, e non trascura alcun fonema, gesto, intenzione per costruire al meglio ognuna di esse. Silvia va dove non si tocca, e nuota meravigliosamente. Suona con maestria ogni strumento di questa particolarissima sinfonia interiore, e ha una speciale seta nei suoi sguardi, , così sottile e leggera che si ha quasi paura che basti un fiato, dalla parte della platea, a stravolgerla. Silvia ha certi occhi che ti abbracciano delicatamente, perché hanno paura di farti male; dice sì, come la Molly joyciana, alla vita di tutti i personaggi, e tutto questo si sente.

Federica Bognetti riesce a condurre se stessa e, insieme, gli spettatori, nel viaggio pieno di stupore e sgomento, che conduce, dal freddo approccio terapeutico della mente scientifica e speculativa, all’incontro che si contamina piacevolmente dell’irrazionale, che deve letteralmente inventarsi una via altra per trovare la soluzione dell’enigma. A poco a poco, spezza la sua verticalità, si piega, dando al gesto uno stupendo valore metaforico. Forma, naturalmente, la scultura vivente di una Pietà del Bernini, l’immagine corporea dove far traguardare questi torrenti impetuosi dei vari flussi di coscienza. I suoi fonemi hanno il tepore confortevole di certe mani femminili, capaci di cambiarti il colore dell’anima accarezzandoti appena il viso. La sua voce abbraccia la dimensione ventrale, è sicura e confortante: un mantra terapeutico che ti entra sotto la pelle, e che accoglie senza giudizio o senza incertezze. Gli applausi, generosi, sul finale dello spettacolo, sono tutti meritati.

Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

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256 secondi, Piovono bombe! Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Piovono bombe

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo 256 secondi, Piovono bombe! Lo spettacolo è scritto e diretto da Cesare Gallarini. Queste “schegge” di bombardamenti sono raccontate da Cesare Gallarini, Lorena Marconi e Ottavio Bordone.

Con buona pace di Kubrick, qui decisamente si impara come odiare la bomba, la quale porta già in dote, nella parola che la denomina, l’onomatopeicità di un suono che ha ben poco di fumettistico, e troppo di tragico. Si racconta la storia di uno strumento di morte che ha, definitivamente, portato la guerra dai campi di marzo ai civili. A crollare non è più l’infestata casa degli Usher, bensì quella dell’uomo qualunque, dell’everyman che si vede, letteralmente, piovere dal cielo la tragedia; gli dèi si sono carrucolati nella scena umana troppo velocemente, pronti a scoppiare in faccia a qualunque platea. La bella intuizione di questo spettacolo è raccontare drammaturgicamente tutto questo, con una efficace e devastante normalità, avendo come bussola, per orientarsi in ogni bombardamento, quella banalità del male ben espressa dalla Arendt. Non ci sono gli eroi del mito, bensì persone comuni, che muoiono.

Perdono la vita a causa di questa pioggia futurista, metallica, dirompente, provocata dalla meteorologia distorta di generali, i quali sono ancora convinti, che, sopra la collina ci sia la notte crucca e assassina; ma gli unici, veri assassini sono loro. La verità di questa assurda etica rovesciata si basa su di una fredda media statistica: se un essere umano ucciso equivale a un omicidio, migliaia sono il risultato di una guerra. In una scena essenziale, gli oggetti sono correlativi oggettivi di questo spaventoso altro, segni tangibili di ciò che rimane; ogni accessorio serve a testimoniare che tutto questo è stato, è, e speriamo che non sarà più. Cesare Gallarini incarna il pilota, o, meglio, ogni possibile pilota che trasporta questo strumento di morte; con la sua fisicità imponente, la sua voce rustica, con tannini di una vocalità intensa, corposa come un buon bicchiere di lambrusco, dice l’indicibile.

Immagine della recensione dello spettacolo Piovono bombe

Usa l’efficacissima arma di una sottile comicità straniata, brechtiana, per descrivere la  quotidianità dei bombardamenti. Ma lì, proprio dietro l’ultimo fonema, a meno di un soffio dall’ultimo fiato, ecco che appare un’intenzione deviante: fa mostra di sé l’anima buona di qualunque Sezuan, che piange in silenzio, terzopersonalizzandosi epicamente. Lorena Marconi è la cittadina, la vittima, sguardo stupito  verso un cielo che dovrebbe ospitare le nostre migliori intenzioni, e, invece, ospita creature mostruose che sputano fuoco sulla città, draghi postmoderni che difficilmente i cavalieri della contraerea potranno abbattere. E poi Lorena ha certi sorrisi, piccoli e delicati, che ti entrano dentro, scavando una strada di fuga dall’orrore. Si riesce a vedere, nella curva di quelle labbra, una tenue speranza; risuona sommessamente il canto di una Vera Lynn, a ricordarci che, forse, ci incontreremo di nuovo in un giorno di sole, dopo l’ultima guerra.

E poi c’è quello sguardo di madre, nel racconto del bombardamento sulla scuola di Gorla, con tutto lo spaesamento di un essere in grado di dimostrare che le bombe, oltre che le case, sradicano le anime. Con le bambole in mano, costringe ogni dio della tragedia all’unico silenzio possibile. Non ci son scuse, Dostoesvskij docet: ciò che rimane incomprensibile, ciò che suona come una fatale accusa per ogni possibile abitante del cielo, è la violenza contro i bambini. Ottavio Bordone è il giornalista raisonneur che batte ostinatamente sulla sua vecchia macchina da scrivere, come il reporter che si trova il proprio cantuccio lirico per portare la propria testimonianza, per regalare alla vicenda un particolare ritmo: quello delle dita sui tasti. E’ una presenza discreta che lega i fili di questa vicenda, uno alla volta, in grado di ricomporre, con dovizia, questa tela di Penelope, che proprio non sa se potrà reincontrare Ulisse.

Immagine della recensione dello spettacolo Piovono bombe

Ogni parola di questo spettacolo è maledettamente necessaria; è uno schiaffo alla letargia dell’indignazione, alle coscienze impigrite, per cui il mondo delle immagini si contamina di realtà, finzione, e consigli per gli acquisti. La denuncia è questa testimonianza chiara, limpida come acqua di fonte. Non c’è fascinazione alcuna nella guerra, non c’è prosecuzione di alcuna diplomazia: solo l’orrore dell’ennesimo Kurtz, capace di raccontare il delirio dal cuore di tenebra di ogni guerra, trovando del metodo poloniano in questa follia. Mesdames e Messieurs, questo è autentico teatro civile di denominazione di origine controllata. Si racconta l’inferno dei bombardamenti senza sconti, senza orpelli, senza infiocchettature retoriche di alcun tipo. E, per citare una canzone di The Wall dei Pink Floyd, ci si meraviglia di come persone debbano, ancora oggi, correre ai rifugi, quando la promessa di un nuovo mondo è stata sbandierata mille volte sotto un cielo azzurro.

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