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Danilo Caravà - page 6

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Rudy. L’ultimo Valentino – Recensione Teatro

in Recensione
Immagine della recensione dello spettacolo Rudy. L'ultimo Valentino
Ph Fabio Spagnoletto

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Rudy L’ultimo Valentino, la storia del mito del cinema raccontata attraverso le sue parole, i suoi pensieri. La drammaturgia, la regia e l’interpretazione si raccolgono nel nome dell’interprete Gianpiero Cavalluzzi, che regala un assolo intenso e struggente.

Rodolfo Valentino, già in forma calligrafica, così, immediatamente, assurge al mito, già nelle parole si sente il profumo di un’idealità che persiste come l’Arpege di una grande diva. Ed eccolo apparire, sul palcoscenico, nell’unico modo possibile di rappresentarlo, nella verità della sua anima, nelle sue confessioni agostiniane, nel flusso di una coscienza che capisce quanto sia difficile essere divinità per gli altri ed essere umano per se stesso. Se si immagina una trasposizione contemporanea di un personaggio della mitologia greca, un Adone, un Apollo, non si può che pensare che a lui, a quei fotogrammi che hanno strappato all’impermanenza di una singola vita l’universalità, se non l’eternità, del cinema. La drammaturgia, a cura di Gianpiero Cavalluzzi, anche interprete, è il risultato di un lavoro di alta sartoria drammaturgica delle parole di Valentino, vere quanto la realtà che ci aspetta appena svegli.

La freschezza di questo lavoro, il suo principale merito, è quello di evitare la trappola agiografica, di non creare piedistalli marmorei al personaggio, ma di offrircelo così, senza un filo di grasso retorico, senza rimaneggiamenti o glosse. Ecce homo, sta davanti al Pilato della platea, pronto a raccontare i dietro le quinte, i fuori scena, il veleno di qualche giornalista, che proprio non sopporta il serto di bellezza con il quale il suo pubblico lo ha impalmato. A vederlo così, nel suo costume iconico, figlio, più che dello sceicco, di una bellezza difficile da portare, ci si rende immediatamente conto di quanto sappia di sale, spesso, la fama, la notorietà. E quando si cambia indossando una frusciante, serica, vestaglia da camera, si ha l’impressione di osservare un Proust che si è rifugiato nella camera della scena, per raccontare minuziosamente, parola per parola, fonema per fonema, la ricerca del tempo perduto.

immagine della recensione dello spettacolo Rudy. L'ultimo Valentino
Ph Fabio Spagnoletto

Cerca di fare quello che si fa in una sala di montaggio cinematografica, ovvero di ricostruire il film della sua vita, di recuperare, sulla pellicola della memoria, tutto il girato, tutto il faticoso piano sequenza del suo esistere. E se l’adagio di Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo” è veritiero, questo monologo sembra lanciare un interrogativo che fa da corollario a esso, “chi salverà la bellezza da se stessa?”. Gli dei devono sentirsi parecchio soli, e non fa eccezione il nostro Valentino. E non basta senz’altro un po’ di fumo del mito, sacrificato sull’ara delle sale cinematografiche, a restituirgli la serenità. L’attore efficacemente ci ricorda che più si è amati dalle moltitudini, più si perde l’abbraccio, l’individualità di un amore cercato strenuamente. Si forma quel muro, quel wall pinkfloydiano tra il divo e la sua platea, un processo di alienazione, che un buon scotch può perlomeno stordire ed attutire.

Proprio come fece Valentino ai suoi inizi in America, anche l’attore diventa per la sua platea una sorta di taxi dancer, in grado di far letteralmente ballare alla platea, ora un vertiginoso valzer, ora un passionale tango, ora un malinconico lento, dove confessare tutto l’amore lasciato lì, poco prima del ciak, o poco dopo. Quanta struggente melanconia c’è in questo spettacolo, e quanto l’interpretazione di Cavalluzzi diventa una timida, delicata carezza che tocca piano il viso di Valentino, perché ha paura di fare male al suo tenero ricordo. La sua recitazione ha la capacità di mostrare la doppia natura di cristallo di questo personaggio, la luce riverberante, ma anche l’estrema fragilità. Fa idealmente tesoro di quanto affermato da Rita Hayworth qualche tempo dopo questo Valentino: “pensano di andare a letto con Gilda, e poi si ritrovano con Rita”. Come nel teatro di Euripide, gli eroi non sono tutti d’un pezzo.

Immagine della recensione dello spettacolo Rudy. L'ultimo Valentino
Ph Fabio Spagnoletto

Non sono scolpiti nel marmo, ma sono fatti di fragilità, ripensamenti, contraddizioni, sono umani quanto noi, con la differenza di dover incarnare qualcosa di superumano. Alla fine appare evidente che sotto la seta dei suoi abiti, ce n’è un’altra altrettanto delicata, appena un soffio sotto la sua pelle. Non era facile trasformare i suoi baci iconici, i suoi sguardi languidi, le sue intenzioni devianti, sos nella bottiglia lanciati nell’oceano del suo pubblico, ma l’interprete ci è riuscito, si è fatto piccolo piccolo nella sua anima per lasciare il posto a quella di Valentino. Rincorreva, come tutti gli esseri umani, la sua felicità Valentino, ed era molto più complessa della trama di un suo film, ma forse era uno spazio silenzioso, inconsapevole di sé, come dovrebbe esserlo la felicità, nella sua infanzia a Castellaneta, in un vestito di un’eleganza senza fiato, in una promessa d’amore di un paio di occhi.

Il suo finale è arrivato troppo presto, ma, come da copione, per citare una canzone di De Andrè, come tutte le più belle cose. visse solo un giorno, come le rose. E quella divinità, così scomoda, che gli si attribuiva, chiedeva un prezzo troppo alto per diventare definitiva, la morte in giovane età, la cessazione della sovrapposizione di una biografia così distante, a volte, dalle cronache del mito. Con il suo incarnato d’avorio canoviano, con le mani gelide di una Mimì che raccoglie tutto il suo calore nel cuore, che offre con generosità al suo pubblico, con il suo passo leggero, con gli occhi gonfi di sogni e sentimenti, l’interprete si offre così, nell’eterno sacrificio del teatro. Per istante, per un meraviglioso lunghissimo istante, si ha l’impressione che Valentino sia davvero lì di nuovo, e per sempre, di fronte a suo pubblico, proprio un momento prima dei generosi applausi.

Immagine della recensione dello spettacolo Rudy. L'ultimo Valentino
Ph fabio Spagnoletto

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Shocking Elsa – Recensione teatrale

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Shocking Elsa
Ph Emma Terenzio

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Shocking Elsa, dedicato alla figura della stilista Elsa Schiaparelli. Il testo è di Livia Castiglioni, interpretato da Maria Eugenia D’Aquino. La regia è firmata da Alberto Oliva. La produzione di questo lavoro teatrale è curata da PACTA. dei Teatri.

Je est un autre”, la frase di Rimbaud che riecheggia nella psicanalisi lacaniana, è un leitmotiv di questo spettacolo, la ricerca dell’identità, di quel quid, inafferrabile, immediato ed insieme indeterminato, che ci caratterizza. Lo cerca Elsa Schiaparelli, interpretata da un’efficace Maria Eugenia D’Aquino, che vive una vera e propria goethiana affinità elettiva con il personaggio. Si trova in una sorta di al di là, nel quale le porte chiuse di sartriana memoria diventano gli schermi di un programma televisivo. Se la carne si era contaminata e sublimata nelle immagini cronenberghiane di Videodrome, lo può fare anche l’anima in una sorta di spazio escatologico. Se la vita è tutta un quiz, lo può essere anche l’oltretomba, può trasformarsi in uno studio televisivo, e rispondere alle domande di una misteriosa voce fuori campo, può essere una pura formalità, anche se Tornatore ci ha insegnato che può essere molto di più di questo.

Rievoca la sua vita Elsa Schiaparelli, che preferisce far cadere l’ultima parte del suo nome, che prende in prestito la forbice delle Parche per regalarsi un destino diverso, e tagliare corto con le lungaggini. Le sue Madeleine proustiane sono dei semi con cui si riempiva la bocca da bambina nella speranza che potessero sbocciare e fiorire sul suo viso. Ama i surrealisti, è decisamente uno spirito dionisiaco, non può che trovarsi a suo agio nella teatro consacrato a Dioniso. E le parole diventano paesaggi, città, Parigi, New York, la Russia, le tappe, o meglio, i passi di danza esistenziale di una creatura che scivola sul mondo come seta leggera, ma che, contemporaneamente lo cambia per sempre. Come la scelta rivoluzionaria, contro corrente di quel rosa shocking che incombe dai fari alle sue spalle, di quel colore carico che vuole essere uno schiaffo marinettiano alle convenzioni, alle formalità, alle grigie abitudini.

Un colore può farsi rivoluzione, può diventare uno stendardo, qualcosa di molto simile al pennacchio di Cyrano, l’espressione più completa, sintetica, estremamente simbolica, dell’irriducibile essenza della propria individualità. Ha anche dei momenti struggenti questa Elsa, ha emozioni pronte a tracimare nella voce e negli occhi, il rapporto con il padre, con la figlia, con lo zio astronomo, attraverso il quale vorrebbe Marte come il Caligola camusiano vuole la luna. Vuole riuscire a rivedere le sue stelle, che ci ha mostrato attraverso le sue creazioni. Vive l’esperienza della guerra, rivive il rapporto con la nipote Marisa Berenson attraverso la relazione con le immagini pittoriche del film Barry Lyndon, e riesce nell’impresa impossibile di toccarle attraverso le sue parole, con la purezza della mano del bambino all’inizio del bergmaniano Persona, o come il regista del Truman Show che accarezza i pixel che compongono l’immagine dormiente di Truman.

Immagine della recensione dello spettacolo Shocking Elsa
Ph Emma Terenzio

Fa un buon lavoro il regista Alberto Oliva riuscendo a meticciare felicemente la dimensione mediatica dello spettacolo, lo studio metafisico televisivo, con un monologo intenso tutto carne e sentimenti. A volte sviene questa Elsa, cade come corpo morto cade, visitando il suo paradiso/inferno, ma è sempre pronta a rialzarsi, a sfidare gli dei con la sua irriverente, gioiosa hybris, e i suoi occhi, con buona pace della Clitennestra della Yourcenar son ben aperti sia nel piacere che nel dolore.  L’attrice è in una sorta di stato di grazia, sente e vibra, come la corda di un pianoforte, sotto i colpi del martelletto di questa biografia. Mostra la sua anima al pubblico, la sua lucente e fragile seta, come un bimbo potrebbe mostrarci la lucciola che tiene fra le mani. Suona uno spartito difficile, e la sua è una perfetta esecuzione. Sembra di incantarsi, nella sua voce, in ogni suo fonema.

È una composizione di Chopin che, sotto la meraviglia floreale, nasconde dei cannoni. Ma, osservandola ed ascoltandola bene, il tesoro più profondo, il regalo speciale donato alla platea, e fatto di piccoli grandi gesti, espressioni, risate che sembrano punti di sospensione, veli che coprono solo in parte, e lasciano intravedere la forma ineffabile dell’anima. È qualcosa di speciale, un’occasione preziosa quella di poter testimoniare questa punteggiatura interpretativa, che è essa stessa una drammaturgia, anzi l’inconscio svelato di una drammaturgia scritta intingendo idealmente la penna direttamente nel calamaio del cuore. Vederla seduta in mezzo alla scena, scoperta nel corpo e nello spirito da luci frontali e da controluci, o nella dolorosa e insieme fiera verticalità, equivale a partecipare alla creazione dell’ultimo vestito, l’ultimo modello, ricavato direttamente dalle linee curve, imprevedibili dell’anima. Elsa accetta il gioco di travestimento, di teatro nel teatro, e interpreta Coco Chanel.

Vive una sorta di sdoppiamento, di altro da sé, di alterità apollinea, distante anni luce dalla sua dionisicità, eppure in grado di completarla, di chiudere il cerchio anche con quella consapevolezza altra, nascosta, opposta al nostro essere, che battaglia incessantemente con la nostra coscienza. D’altra parte la coscienza per riconoscersi deve trovare uno specchio, un’altra identità per potersi riconoscere e identificare, magari per opposizione. La laringe del’interprete ad ogni “adesso” scenico batte il suono della verità, mostra tutto il modo di essere declinata, plasmata dai colori delle emozioni di Elsa. E se la musica bowiana, nel finale, ci ricorda che c’è vita su Marte, con altrettanta sicurezza, alla fine di questo spettacolo, si può affermare che c’è vita, eccome se ce n’è, anche sul palcoscenico di Pacta dei Teatri – Salone di via Ulisse Dini, nella potente interpretazione dell’attrice Maria Eugenia D’Aquino.

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Fly by me – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione Fly by me

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Fly by me, la fantastica storia degli inventori dell’aereo. I fratelli Wright diventano oggetto della drammaturgia di Carlo Della Santa, che è anche l’interprete di questo testo. Questo lavoro è stato pensato e realizzato nella duplice modalità online e onlife.

Carlo Della Santa è un attore che letteralmente prende il volo. Prende un fiato, e lo prende lungo come se lo aspettasse una lunga apnea, e sembra che quello stesso fiato duri più di un’ora. In quel vento d’aria fa volare tutta una lunga serie di fonemi, e non c’è un momento in quel volo in cui manchi la luce di un sorriso. Il teatro di narrazione a un certo punto deve farsi azione, deve fare di un corpo cento corpi, un’intera scenografia, deve diventare la carne di una storia, o la ciccia,  per omaggiare la terra Toscana dell’interprete. E l’attore riesce a fare tutto questo, riesce a trasformare una storia che giace in qualche scaffale di libreria, in una drammaturgia che ha l’argento vivo addosso, che ti travolge in un girotondo che non puoi idealmente fare a meno di condividere con chi si trova sulla scena.

Non si tratta semplicemente di un monologo, ma di una cucina di creatività, dove senti il profumo delle parole, lo sfriccichio  dell’olio della comicità, e due mani che sembrano impastare il racconto, che sembrano volerne restituire tutto quanto il percepibile possa offrire. Riesce in una fondamentale impresa, ossia quella di ridonare la forza della vita a due nomi, quelli dei fratelli Wright, altrimenti costretti nello spazio angusto di un libro o di una targa commemorativa. Carlo si dipinge, con ogni gesto ed ogni parola, le mani e la faccia di blu, e ha negli occhi la febbre del volo, ha un paio d’ali che sono tutte lì, in un corpo e in una laringe che potrebbe timbrare tutti i nomi del cielo. Ma non si ferma a questo, dalla sua recitazione tracima l’entusiasmo, la necessità, e, diciamo pure, l’urgenza del raccontare come gli antichi aedi.

Immagine della recensione dello spettacolo Fly by me

Riesce a ritrovare quella dimensione magica, misterica, magnetica, ipnotizzante della parola, che Freud ha ricordato nei suoi scritti. Ti porta sulla sua giostra l’attore, e ti verrebbe voglia di restarci per molto più di un’ora. Non si limita a raccontare i tentativi di un volo, ma lo diventa, anzi le sue braccia spesso diventano quasi gli arti di un volatile, e l’aria se la trova tutta lui, quanta ne possono offrire i suoi capienti polmoni. In mano, nascosta da qualche parte, come un abile prestigiatore, tiene la ghianda di Hillman, quel daimon, quella forza, quella predeterminazione, quel destino che spinge i due fratelli a vincere l’impossibilità umana del volo, e parallelamente, a portare l’attore a interpretare una storia con tutto se stesso. Plauto ci ricorda che non è facile volare senza ali, eppure l’interprete ci riesce, eccome se ci riesce, fin dal primo tentativo.

Alterna il racconto della propria passione giovanile per una ragazza dai capelli rossi, e riesce a reinventarsi la slapstick, la comicità del cinema muto, la cartoonistica abilità di vedere il suo corpo aprirsi, flettersi oltre misura, compiere l’impossibile che potrebbero compiere i Tom e Jerry di un cartone animato. E subito torna lì, a quel cruccio, a quella voglia di due fratelli di superare la sindrome di Icaro, di fare del cielo un’ulteriore strada da percorrere, un posto dove non dimorino più i desideri, ma la realizzazione degli stessi.  Non c’è parola dell’attore che non sia più leggera dell’aria, che non diventi la piuma di Forrest Gump, pronta a passare, dispettosa, curiosa, affascinante, sopra i nasi degli spettatori. E come sono piacevoli le “bischerate” con cui condisce il racconto, ricordandoci che la commedia sta sempre lì, da qualche parte, in ogni situazione, pronta ad essere presa,

Immagine della recensione dello spettacolo Fly by me

Ed un sorriso, regalato o provocato, è un ottimo viatico della comunicazione, è un po’ come prendere per mano chi ti sta ascoltando, è un po’ come fare sentire il calore della propria presenza. E c’è qualcosa di tattile in questa voce, come la volontà di dare una mano in regalo ai fonemi, una mano in grado di toccarci. C’è la volontà chiara di avere una platea viva, vitale, di scaldare la temperatura emotiva della sala. La crosta di questo pane teatrale toscano scrocchia e lascia poi il posto ad una mollica dolce, arrendevole, che chiede soltanto di essere masticata dallo spettatore. Con la rapidità di un Fregoli, il protagonista diventa ora un affabulatore, ora un comico da stand up comedy, ora un testimone innamorato della storia che racconta, ora un funambolo in perfetto equilibrio tra la serietà e la risata. Certamente  ascolta i suggerimenti della Musa della commedia Talia,

Sa che anche la risata, al pari della tragedia, ha la sua forma di catarsi. Fa piacere riscontrare quanto sia riuscito l’esperimento drammaturgico di costruire un teatro didattico che mantenga tutta la sua anima. Tutto questo Carlo riesce a farlo con una naturalezza estrema, un risultato che non è mai agevole da ottenere. Nel suo viso sembra racchiusa tutta quella toscanità vitale, piacevolmente irriverente di un Cecco Angiolieri che non faceva mistero di prediligere: “Le donne, la taverna e ‘l dado”. Governa lo spettacolo con la stessa sicurezza con cui i fratelli Wright governavano i primi aerei. D’altra parte, come ci ricorda Leonardo, chi ha provato il volo continuerà a camminare guardando il cielo, perché là è stato, e là vuole tornare. E questa sensazione è condivisa dalla platea, che si porta in tasca un po’ di quel cielo in cui ha volato insieme all’attore, per una meravigliosa ora.

Immagine della recensione dello spettacolo Fly by me

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Un’altra vita – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Un'altra vita

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Un’altra vita, recitato dall’attrice Silvia Soncini, che è anche autrice della drammaturgia insieme a Claudia Pozzo. Il lavoro è liberamente tratto dal romanzo Non lasciarmi dello scrittore britannico vincitore del Premio Nobel per la Letteratura 2017 Kazuo Ishiguro.

Ci vorrebbe un’altra vita, cantava Battiato, ma un’altra vita c’è già, e sta lì, ad un passo dagli spettatori, in un salotto milanese di Piazza della Repubblica, dove Mariagrazia Innecco fa di una stanza un regno, e principi per interpreti, per scriverla come il Bardo di Stratford-upon-Avon. Questa volta è il turno dell’attrice Silvia Soncini che ha un viso insieme antico e moderno, porta la voce del mare con sé, quando si annuncia, da un lato della strada, mentre lo si raggiunge in macchina. Ha la purezza, la nobiltà ed insieme l’umiltà dell’acqua che scintilla, come uno scudo liquido, di fronte ai dardi del sole del personaggio che interpreta. E la sua voce ha la chiarezza, l’evidenza e la semplicità di un pane spezzato, di una comunione sincera da vivere e da condividere con lo spettatore. Non si limita a parlare Silvia, ma ci soffia in faccia l’alito della sua anima.

Ed è leggero, ma brucia anche sulla pelle, come il freddo dei momenti tragici che racconta. Il suo vestito nero è una sorta di negativo fotografico di un’anima che ha il colore dell’avorio, ed ha un’invincibile voglia d’essere più di sé stessa, d’esser quel noi, quella segreta alchimia di condivisione che unisce la platea ed il palcoscenico. La storia che incarna è quella raccontata nel romanzo “Non lasciarmi” del premio Nobel  Kazuo Ishiguro, il racconto di un’animula vagula e blandula di un collegio, senza passato, né genitori, che condivide il tragico destino di altri studenti, ossia quello di avere solo l’ombra di un’esistenza, la certezza di uno scacco matto esistenziale che ha una data ed un nome preciso. Ma scopre l’amore come Ciaula scopre la Luna, scopre l’Antigone che ha in sé, e le leggi del cuore che fatalmente sono a distanze siderali da quelle formali.

Foto spettacolo teatro Un'altra vita

Si rinnova l’eterna sfida della tragedia, ma senza il passo tragico e solenne del coturno, piuttosto quello lieve di una donna, di un’eroina sofoclea per vocazione, che vorrebbe in maniera struggente che Atropo aspettasse un po’ di più a tagliare il filo della sua vita. E se i mulini degli dei di Omero macinano lentamente, altrettanto non fanno quelli di questa storia, sono ruote che girano veloci, in maniera incessante, che chiedono ancora un altro sacrificio. Ma la protagonista, che ha il compito di assistere più e più volte, reiteratamente, al destino che lei stessa avrà, vive la sua impossibile partita già persa, eppure in ogni mossa, in ogni fonema che ci regala, in ogni gesto aggraziato, pensato, semplice e perfetto, nello stile essenziale di uno zen teatrale, alza la testa verso il suo cielo e lo guarda con forza e dignità

E sente anche lei, in fondo al cuore, di avere il legittimo desiderio di appartenere ad esso, di un’altra vita. Certi sguardi dell’attrice, che ti inchiodano lì al tuo posto, come un entomologo fa con lo spillo sulla farfalla, sono tutte verità che trascendono le parole, che possono dirsi solo nell’immediatezza sensoriale, l’ultima verità di un misticismo della religione universale dell’umano, scritta sui fogli del corpo, comprensibile da tutti perché sono pagine che lo spettatore sfoglia al proprio interno. Heidegger, per un attimo, è un’intuizione rapida e totale rivelata dalla recitazione di una interprete, l’uscita dal pensiero impersonale del “tutto finisce”, del “si muore”, come un fatto oggettivo osservabile sempre dall’esterno, come un dato fattuale, e l’approdo all’io dello spettatore che vive questa tremenda possibilità, che dà colore, nitidezza e forza alle scelte, le rende autentiche, necessarie. E Silvia ci racconta tutto questo con una recitazione decisa, ma insieme in punta di piedi.

Immagine della recensione dello spettacolo Un'altra vita

È in grado di fare con il dolore, quello che il gelo fa con l’acqua, trasformarlo in un meraviglioso cristallo, che non si può far a meno di guardare. La sua vocalità si spoglia del metallo di certe laringi bronzate, e arriva a restituirci la verità di se stessa, di una passione con la necessità, l’urgenza di dirsi, meglio ancora, di donarsi alla platea. Non c’è alcuna barriera, alcun filtro, e la vicinanza tra pubblico ed interprete si traduce in vicinanza spirituale, emotiva, fino a diventare una sovrimpressione di anime. E se normalmente la parola insegue sempre a qualche passo di distanza ciò che dovrebbe rappresentare, qui, in certi momenti di grazia, arriva alla perfetta sovrapposizione, il significante ed il significato diventano indistinguibili, il personaggio e l’attrice non hanno alcuna terza persona di distanza. E questo avviene proprio quando la parola giunge al suo confine, sfida il limite della dicibilità.

Diventa un silenzio, un sovrappensiero, con più pagine, grondante anima, che avvolge, conquista, abbraccia con forza, quasi fino a farti male. Tutte le creature di questo meraviglioso racconto, in fondo, non chiedono altro che dare ai propri polmoni esistenziali la possibilità di espandersi in un passato, avere ricordi, testimonianze del proprio esserci, e dilatarsi nel futuro così incerto, così chiuso in un orizzonte limitato. Non si può non sentire un’empatia, un’inevitabile comunanza con questi esseri che sentono, per usare una metafora pirandelliana, le tavole dell’esistenza mancare sotto i loro, e i nostri, piedi. Se il teatro è tutt’ora un rito che porta ancora un po’ dell’incenso di cerimonie sacre, è perché esistono spettacoli come questo, attrici come questa, che guarda, per noi, in faccia tutta la fragilità della condizione umana, e ce la restituisce, sublimandola, in sguardi e gesti che fanno tremare le vene dei polsi delle divinità.

Immagine della recensione dello spettacolo Un'altra vita

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Diplomazia – Recensione Teatro

in Recensione
Foto recensione spettacolo Diplomazia
Ph Laila Pozzo

Nell’ambito della stagione 2021/2022 del Teatro Elfo Puccini vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Diplomazia di Cyril Gely. La rappresentazione è ideata da Elio De Capitani e Francesco Frongia. Gli interpreti sono Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Michele Radice, Alessandro Savarese, Simon Waldvogel. La produzione è curata dal Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Catania.

Lo scrittore Tobia Fischer scrive che impugnare una pistola significa essere dalla parte giusta di un dialogo socratico, ma in questo spettacolo si prova esattamente il contrario. Per quanto il generale Dietrich von Choltitz punti ostinatamente la sua arma, con la stessa pervicacia con cui l’Hans freudiano gioca con il suo rocchetto, il vero maieuta del dialogo è il console svedese Raoul Nordling che vuole salvare Parigi da un tragico ordine di distruzione. Ed è vestito di bianco con la barba, animato da un suo personalissimo daimon, ha tutte le caratteristiche di un moderno Socrate, pronto a far partorire le verità più scomode ad un alto ufficiale, che proprio respira male in un notte d’estate “crucca e assassina”. Ci sono già intenzioni devianti, rinvii, tensioni, auto sabotaggi, ripensamenti, tutto un mondo di piccole e grandi psicopatologie, che De Capitani fa vivere magistralmente, le quali segnalano l’esistenza di una volontà inconscia.

Ed è pronta a essere portata alla luce dalle parole del diplomatico. In una stanza d’albergo si gioca una partita a scacchi verbale, rifinita come un oggetto di alta oreficeria di Cellini, e non c’è arrocco, difesa o attacco che tenga da parte del tedesco, perché dall’altra parte ci sarà sempre un cavallo imprevedibile pronto a dare scacco al generale. Questa notte di un nominato è intensa quanto quella manzoniana, con la felice intuizione di dare corpo e sostanza alla coscienza del militare attraverso il personaggio del diplomatico. Quello che salta subito all’occhio è la costruzione di geometrie, di distanze, avvicinamenti ed allontanamenti, che si vengono a creare  tra i due personaggi, le due razionalità si danno battaglia su un piano cartesiano, su un tavolo da biliardo, dove si deve calcolare esattamente l’angolo del proprio discorso per fare punto. Apollo e Dioniso si scontrano per l’ennesima volta.

Immagine della recensione dello spettacolo Diplomazia
Ph Laila Pozzo

Si studiano, si misurano reciprocamente, consci del fatto che, per scriverla come il buon Eraclito, gli opposti si danno significato reciprocamente. Nessun servo e nessun padrone in questa dialettica hegeliana, ma una battaglia stremante, ininterrotta, che si consuma fonema dopo fonema. E dopo aver esaurito le pallottole verbali, ci si scontra all’arma bianca, alternando furiose sciabolate fonetiche a colpi in punta di fioretto. Elio De Capitani e Francesco Frongia costruiscono uno spettacolo che si regge su una vertiginosa architettura verbale, in grado di lasciarti senza fiato come la verticalità ardita e le volte rampanti di una cattedrale, che proprio non vuole saltare in aria per gli ordini folli di un pazzo dittatore. Ferdinando Bruni è sottilmente sulfureo, e la sua tentazione, esercitata sul generale, verso la scelta etica, è quella di un demone positivo che oppone una sorta di presenza zen, di meditazione in forma di dialogo.

E brucia il suo incenso fonetico in grado di catturare l’interlocutore e l’intera platea. La sua è una laringe ribollente, adatta a cuocere a fuoco lento l’avversario scenico, è un raisonneur, un fedele di Apollo, che non disdegna di usare le armi dionisiache alla bisogna. Si muove con esattezza sulla scacchiera scenica. La sua faccia da poker funziona, eccome se funziona, e vedere le sue carte è un rischio, perché il suo è tutto tranne che un bluff. Elio De Capitani, abita con soddisfazione, meravigliosamente, il suo personaggio, sembra di sentirlo idealmente pronunciare il suo convinto “hic manebimus optime”. Mostra tutto il tormento senza estasi di un generale il cui meccanismo pavloviano di ordini e di esecuzione degli stessi sembra essersi inceppato da tempo. Al pari del Ciampa pirandelliano fa sentire tutta la nota dissonante della corda seria e il minacciante eco di quella pazza.

Immagine della recensione dello spettacolo Diplomazia
Ph Laila Pozzo

Mostra il suo fiato corto, che non è solo quello dovuto all’asma, ma soprattutto quello di una logica militare che affonda con la stessa implacabilità del Titanic. Teso, nervoso è una sorta di lupo in trappola che non sa se mordersi la zampa intrappolata nella tagliola per trovare una via di fuga, o fidarsi di chi si offre di liberarlo da quella trappola. Non si limita a dimorare nel tempo scenico, lo diventa, ed allunga gli istanti come se fossero gocce di pioggia sul vetro di una finestra. Consuma la notte, ce ne fa sentire l’afa, ci fa avvertire il ronzio incessante dei suoi dubbi che lo attanagliano, che lo divorano dall’interno. I restanti interpreti, Michele Radice, Alessandro Savarese, Simon Wadvogel, sono bravi a fare gli assist giusti ai due protagonisti, a diventare gli stimolanti somatici, emotivi, della vicenda. Scaldano al momento giusto la temperatura.

Sono come aghi dell’agopuntura inseriti nel punto giusto del testo scenico per stimolarlo. Caloriferano i dialoghi del generale e del console al pari dell’artemisia bruciata in vicinanza della cute, nella pratica della maxicombustione. Il testo di Cyril Gely è un ottima drammaturgia le cui potenzialità sono ampiamente utilizzate in questa riuscita versione teatrale. Qui il dialogo diventa esso stesso un personaggio, un intero mondo che due esperti interpreti della levatura di Bruni e De Capitani, non solo sono in grado di reggere, ma li fanno girare in aria come potrebbe fare il giocoliere con le sue sfere. Sono prestigiatori delle parole, le mostrano, le restituiscono in forma di diamanti purissimi. La voce decisa dei rumorosi applausi testimonia non solo il gradimento da parte del pubblico, ma anche la certezza che abbia passato la barriera emato – encefalica e sia arrivato alla coscienza.

Immagine della recensione dello spettacolo Dipomazia
Ph Laila Pozzo

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La Sorpresa dell’Amore – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione La sorpresa dell'amore

Nell’ambito della rassegna Teatro a CieloAperto di Pacta dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La sorpresa dell’amore di Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux, interpretato da Federica D’Angelo, Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Annig Raimondi e Antonio Rosti. La regia è firmata da Paolo Bignamini, e la produzione è a cura di Pacta dei Teatri in collaborazione con CTB Centro Teatrale Bresciano.

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La chimica invisibile – Recensione Teatro

in Novità/Teatro
Immagine della recensione La chimica invisibile

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La chimica invisibile, da un’idea di Mariasole Bannò, scritto da Andrea Albertini. La regia è curata da Bruno Frusca.

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VERLAINE+RIMBAUD – Recensione Teatro

in Teatro
Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

Nell’ambito della rassegna teatrale di Pacta dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo VERLAINE+RIMBAUD (Un’ora all’Inferno con te) di Maddalena Mazzocut-Mis, dalle liriche di Verlaine e Rimbaud, interpretato da Alessandro Pazzi ed Edoardo Rivoira. La regia è curata da Annig Raimondi, e la voice off è quella di Massimiliano Zavatta. Diciamolo subito, questo spettacolo, con il piglio di un Antigone, vuole raccontare l’assoluto, quell’universale che gronda dal verso poetico, dalla poesia simbolista, e lo fa passando attraverso il corpo e la voce dei due interpreti. Fin dall’antichità gli esseri che sono scelti dagli dei per diventare la loro lingua umana, per tradurre le loro parole, sono condannati ad una irriducibile diversità, ad una malattia metafisica cronica che gronda anima. Rimbaud e Verlaine, attraverso la loro presenza, sono, prima di tutto, la loro corporalità, che diventa una sorta di coreografia, perché il corpo è già un primo segno grafico, una calligrafia che scrive faticose parole esistenziali. Sembrano gli ultimi pezzi di una scacchiera, i due re che ostinatamente continuano una partita, la quale non può che risultare patta, lo scaccomatto, semmai, se lo daranno autonomamente. È la storia di un “odi et amo” catulliano.

Esprime una liason che non può che essere dangerouse, perché ha come terzo amante la poesia stessa. La luce taglia a rasoiate lo spazio, lo fa sanguinare, cerca l’altro, si sforza di far intuire paesaggi diversi, metafisici. E quel busto in scena racconta benissimo il senso si straniamento, di solitudine del poeta, che, al pari dell’albatros di Baudelaire, quando è costretto a muoversi sulla terra, tra la prosaicità della vita, caracolla goffamente, magari, similmente a Rimbaud, cercando nell’Africa del “hic sunt leones” un inconscio kurtziano, un cuore di tenebra con cui poter regolare finalmente gli ultimi conti. In fondo la loro coppia rappresenta l’eraste e l’eromene, l’antico amore didattico tra il giovane e l’uomo maturo. Ma qui ad insegnare il caos di Dioniso sembra essere Rimbaud, che dell’Alcibiade del Simposio ha l’ebbrezza procuratagli da una bottiglia di assenzio, e Verlaine di Socrate ha la tentazione di sorseggiare la cicuta.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

Spera di poter guarire definitivamente dalla malattia esistenziale. Ed intanto si parlano con le loro poesie, che, attraverso la voce fuori campo, vivono anche nell’originaria lingua francese, ed è una piacevole scoperta quella di poter assaggiare la matericità di questo suono. Non è un caso che lo specchio, sia esso un piccolo cerchio, o uno grande in grado di abbracciare l’intera figura, incarni la presenza scenica in grado di diventare l’irresistibile forza di gravità per i due personaggi. Questo oggetto mi ricorda i versi letti alla Lady Lyndon cinematografica: “Les coeurs l’un par l‘autre attirés/se communiquent leur substance/ tels deux miroirs ardents…”, i cuori si comunicano la loro sostanza come possono fare due specchi ardenti, i due poeti si trovano e si perdono nel gioco dell’identità dello specchio, che ci restituisce insieme l’identità e l’altro. Lo specchio rimanda etimologicamente al “guardare”, è l’oggetto atto a guardare ed insieme a guardarsi.

Diventa l’antico strumento fiabesco delle proprie brame, lo interrogano su chi sia la più bella del reame, ma la risposta invariabilmente è: “la poesia”, e la vita è condannata ad essere la prosa, la eco di una luce superiore, di un’illuminazione che riposa sul foglio. È brava la regista Annig Raimondi a creare una sorta di coreografico e delicatissimo pas de deux, dove i corpi stessi dei poeti diventano simbolo, si cercano, si trovano, si respingono, ma non riescono ad allontanarsi definitivamente, si danno significato reciproco attraverso questa dolorosa dialettica. Per raccontare i vasti orizzonti metafisici del panorama poetico dei due personaggi, riesce a straniarli, riuscendo nell’impresa di vestire Brecht della seta della poesia simbolista. Torreggiano sulla scena, danno senso allo spazio intorno a loro, costruendo continue distanze, geometrie dinamiche. Giocano coll’allontanarsi/avvicinarsi come l’Hans freudiano fa con il suo rocchetto.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

E davvero il loro gioco serio e tragico, va al di là del principio dl piacere, ed ad un certo punto il rocchetto diventa il grilletto della pistola di Verlaine rivolta contro Rimbaud, la tentazione della “mortido”, Thanatos strattona decisamente Eros, e fatalmente lo fa cadere. Alessandro Pazzi, l’interprete di Verlaine, riesce a graffiare ed accarezzare con i suoi fonemi, si lascia abitare dalle parole, fa decisamente percepire allo spettatore quanto sia dolce naufragare in questo mare. Più che l’anima di un singolo personaggio incarna quella delle liriche, s’immedesima nel verso diventando una sorta di Pizia, di oracolo posseduto da una voce divina. Si avverte tutta l’urgenza non di limitarsi ad interpretare la poesia, ma di essere quella luce lirica, fonema dopo fonema, gesto dopo gesto. Edoardo Rivoira è un perfetto Rimbaud che esprime nella sua vocalità i suoi pugni nelle tasche sfondate.

La sua dinamite anarchica nei confronti di un mondo farisaico, troppo piccolo per contenere la sua poesia, si incontra e si scontra con Verlaine, diventa un suo doppio, incarna il Dioniso che intossica il suo amante poeta. Ma soprattutto parla con il corpo, ne fa una sorta di pietà scultorea, di estremo verso poetico scritto, inciso, nella carne, nei muscoli, nei nervi  e nei tendini. I due poeti passano la loro stagione all’inferno, ed il grido per le ustioni di quel calore diventa la loro poesia. Come i personaggi di Sartre sanno che l’inferno sono gli altri, ma nel gioco dello specchio comprendono che quell’inferno è l’immagine che l‘altro rimanda di se stessi. E sugli applausi finali, caldi e particolarmente generosi, idealmente riescono, insieme agli spettatori, a rivedere le loro stelle.

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Ph Emma Terenzio

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Odisseo racconto di un’ePOPea – Recensione Teatro

in Novità/Teatro
foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Odisseo racconto di un’ePOPea, recitato dall’attore Carlo Decio, e diretto dal regista Mario Gonzalez. il lavoro rappresenta l’occasione di restituire al personaggio omerico tutta la sua umanità. Quando l’attore ha l’urgenza di raccontare una storia, quando le parole sono una pittura materica, diventano non delle pennellate, ma il disegno stesso delle dita intrise di colore sulla tela della quarta parete, si guarda e si ascolta la vivacità di quel quadro come si guarderebbe una tigre dipinta da Ligabue. Sembra che i nervi, i tendini, ed i ritmi cardiaci siano la stessa vocalità cromatica, che vive una vita propria, che sfida in vitalità il corpo stesso che la abita. La storia di Odisseo sembra fatta apposta per accendere la miccia, per dare fuoco alle polveri, per narrare il racconto dei racconti, quello dell’uomo inviso agli dei, che scrive la sua tragedia da un luogo all’altro, che ne piega il finale, che sfida gli dei laddove la sfida sembra più impossibile, sul terreno della conoscenza, del sapere.

Carlo Decio, l’interprete, ha il merito, di immergere fino al tallone ed anche oltre, il suo personaggio nell’umanità, ne mostra la carne emotiva, la ferita interiore che fatalmente brucia, sferzata dall’acqua salata del mare. Ed il centro della sua narrazione in grado di farsi corpo, di plasmarlo in paesaggi, personaggi, rumori, è una bocca, e che bocca. È Cariddi, un vortice, un gorgo, che ci risucchia nell’attenzione e nell’ascolto, circondata da una barba rude, aspra, come certi paesaggi della macchia mediterranea, ed i denti  sono gli scogli dei mille approdi, della petrosa Itaca. Sembra la bocca dell’album dei King Crimson che tutta contiene le traversie di un lungo viaggio, dei pericoli, delle paure, delle speranza, è la bocca di Polifemo che rigurgita vino e carne umana, ma anche maledizioni contro il suo accecatore. È l’erede ideale degli aedi, degli antichi cantori, ma è anche una marionetta biomeccanica, un mimo.

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Diventa un mostrarsi di corpi in un solo corpo. Ma, più di tutto, è generoso l’attore con il suo racconto, ci versa dentro, pieno raso, tutto il vino della sua anima, e lo fa bere agli spettatori, tutto d’un fiato. Ed i suoi fiati sono lì, tutti pronti a gonfiarsi come l’otre di Eolo, per contenere tutte le parole, anche quelle che non ci sono, o che potrebbero esserci. In certi momenti, visivamente, ricorda una sorta di uomo vitruviano, che mostra come si possa trovare la quadratura del cerchio, come Dioniso ed Apollo, ragione e sentimento possano mostrarsi in una meravigliosa sovrapposizione. Gli si sente addosso l’odore di certi palcoscenici di strada, quelli ricavati da qualche tavola di legno, quelli in cui devi proprio spremerlo tutto il muscolo cardiaco nelle parole per catturare l’attenzione. Ha la forza trascinante del giullare.

Possiede l’energia di chi può permettersi di raccontare l’uomo perché ne conosce bene il ventre, gli è più vicino della sua stessa giugulare. La narrazione slitta fatalmente in azione ad ogni istante scenico, si lascia sostanzializzare dalla carne dei personaggi. Lui viaggia attraverso terre pericolose, affascinanti, terribili, e lo spettatore viaggia nelle parole e nei gesti, nelle capriole, nei lazzi, di questo zanni, di questo efficacissimo Arlecchino omerico che, idealmente, ha tante toppe colorate quante sono le sfumature del suo racconto. Cucina la sua storia, come un cuoco potrebbe impastare la farina, stendere la pasta, assaggiare la sua creazione in fieri. Ci invita tra i fornelli del destino di Odisseo, e ci mostra quanta sia facile scottarsi, o tagliarsi, ma anche avere la possibilità di degustare dei piatti prelibati. Sembra una riuscita sovraimpressione della danza fisica, sciamanica, a piedi nudi, di uno spirito della terra, di un Calibano.

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Ed insieme esprime quella eterica, leggiadra, arabescata, di uno spirito dell’aria, Ariel. E davvero tutto il suo corpo è un meccanismo scenografico in perenne movimento, un periatto che, ruotando, mostra scenari ogni volta diversi, e, senza neanche accorgersi, ecco che lo spettatore è già entrato nella magia dell’abracadabra del racconto. Passa, come solo un bambino è in grado da fare, dalla rabbia, alla gioia, al dolore, alla sorpresa, ed ogni volta con lo stesso stupore, ogni volta come se fosse la prima volta. La sua voce ricorda le mani di certi scultori del legno, mani vissute, grattate, che portano i segni dell’eterna battaglia per vincere la materia, e cavarne fuori l’opera. E quando abbraccia l’ombra della madre morta e rivista nell’Ade, tira fuori dalle tasche tutta la semplicità, tutta la naturalità di un sentimento che è immediatamente lì.

Verrebbe voglia di abbracciare questo Odisseo, di consolarlo. La fallacia di Ulisse diventa la sua forza, gli errori, i ripensamenti, tutte le debolezze ce lo tirano giù dalla teca museale del mito, e ce lo rendono un amico che si accende mentre ci narra episodi della sua vita. Per lui sono valide le parole di una poesia di Brecht, “tu non avevi nessuna debolezza, io ne avevo una, amavo. E quel “tu” potrebbe essere la risposta beffarda, ideale che il personaggio rivolge agli dei. In fondo il fatto di essere perseguitato dalle divinità, gli permette di sviluppare una muscolatura interiore, spirituale, di esercitarsi in questa sfiancante ginnastica psichica, emotiva. Quando abbraccia Penelope, e quell’abbraccio non è chimerico come quello con il genitore, ritrova la freccia più appuntita in grado di bucare l’invulnerabile corpo degli dei.

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