Riprendiamo la nostra rubrica con un nuovo focus sui mestieri del teatro: lo scenografo. Accade infatti che un oggetto, inaspettatamente, nel foglio bianco, tridimensionale, della scena diventa qualcosa di più e di diverso rispetto a sé stesso. Si trasforma in un segno grafico, in una serie di lettere in grado di comporre parole, frasi di senso compiuto. Questo è il segreto che ogni scenografo comprende bene. La creazione di un ambiente, porta sempre su di sé una responsabilità enorme, è la prima impronta immediata, visiva, che si ha di un testo scenico. È per così dire, il primo interprete a farsi conoscere dalla platea. Rappresenta, come il vecchio Firs del Giardino dei ciliegi, un personaggio che ostinatamente rimane in scena nonostante tutto ciò che possa accadere attorno.
Sembra che ci si dimentichi di lui, eppure è sempre lì, presente, pronto a servire la storia ed il modo con cui il regista la vuole raccontare. Il mondo del palcoscenico ha la sua particolare genesi, riscrive la realtà e la distilla attraverso l’alambicco della sensibilità poetica. Dopo tutto anche questa realtà, rispetto al sogno, ha la caratteristica della persistenza. La volontà di annunciarsi ai sensi continuamente, dunque per scriverla alla Pessoa, come cosa vera dall’esterno. La scenografia e come tale il mestiere dello scenografo sono di fatto il primo patto di credenza che si stabilisce con lo spettatore, gli si chiede di avere fede in quella determinata scena. Così come abbiamo già avuto modo di raccontarvi per altri mestieri del teatro, avventuriamoci in questo viaggio decisamente interessante.
La scenografia non dovrebbe essere la mera riproduzione di elementi reali, l’ombra delle cose proiettate sulla caverna platonica, ovvero sul palcoscenico. Piuttosto dovrebbe possedere una propria teatralità, un proprio statuto fondativo, altrettanto forte ed evidente rispetto a quello offerto dal mondo condiviso. Dunque gli oggetti scenici non sono veri in quanto attenta riproduzione del reale, ma in quanto costruiscono una rete di simboli, di significati, percepibili dalla distanza della platea. Ecco allora che, come ricorda lo scenografo Luciano Damiani, una putrella di ferro, in scena, non sarà semplicemente se stessa, ma avrà una sua propria sostanza teatrale.
Vi sarà dunque una capacità di comunicazione altra rispetto a quella che ci può aspettare da questo oggetto. Mettere al mondo un nuovo mondo, dagli un contenuto, “arredarlo” è una grande responsabilità. Un processo che chiede necessariamente una fase di progettazione. Quel momento in cui l’idea viene scomodata, “tirata giù” dal mondo iperuranico, e comincia a prendere forma grafica, geometrica. Sulla carta, prima di acquisire tridimensionalità vera e propria sul palcoscenico. Sempre Damiani, che per la scenografia ha una funzione simile a quella vitruviana per l’architettura, ricorda l’importanza dei raggi visuali nel momento del bozzetto.
Bisogna calcolare, soppesare il volume, il “peso” delle cose, prevedere il rapporto tra di esse e gli interpreti, in modo che tra questi due elementi ci sia sempre un principio di armonia. La connessione tra uomo e oggetto sta nel cuore di questo antico mestiere del teatro, lo scenografo, è infatti il primo assioma di un sistema da cui poter dedurre tutto il resto. Quello da evitare è certamente l’errore del sovradimensionamento, della presenza eccessivamente carica, che diventa perciò ingombro, della scenografia. L’antico principio medico, ippocratico dell’isostasia, ovvero dell’equilibrio fra le parti, rappresenta anche quello in grado di essere una guida, una vera e propria stella polare per lo scenografo.
Ogni oggetto è chiamato a subire questa prova del nove, obbedisce ad un principio di necessarietà, evitando la trappola di cedere alla scorciatoia dell’accumulo e dell’accatastamento. Tra il testo teatrale stesso e la scenografia deve sussistere un’affinità elettiva, e se la drammaturgia si sviluppa in una certa modalità, necessariamente la scena dovrà esprimere quella dimensione. Lo scenografo rappresenta di fatto colui che riesce ad andare oltre il semplice guardare, andando a scoprire qualcosa che agli occhi dei profani non appare naturalmente, cioè il fatto che le cose abbiano un’anima, o meglio utilizzando un’espressione cara a filosofo di Mileto Talete, siano piene di dei.
Gli oggetti hanno un capitale poetico da esprimere e da investire all’interno del teatro, concorrono, insomma, ad esprimere la poesia del testo scenico. Il copione ha una sua musica, un suo particolare timbro, che questo professionista teatrale deve scoprire ed assecondare. Il tranello più frequente in cui si può incappare è quello di costruire una scena che cerchi semplicemente di assecondare i canoni del meraviglioso, di ciò che in grado di stupire. Ma questa concezione finisce coll’ “impallare” gli interpreti, la storia tutta.
La scenografia è al servizio della storia, concorre a costruire l’accordo armonico in grado di accompagnare al meglio la melodia delle battute, del succedersi delle scene. Per crearla è estremamente utile avere sempre in tasca la frase del filosofo Occam, occorre “non moltiplicare gli enti se non è necessario”. Ogni elemento, ogni “presenza” oggettuale, in questo modo, acquista un proprio peso specifico, “dialoga” insieme con gli interpreti e con la platea. Ha una sua preziosa ed unica relazione con l’invisibile, con ciò che può passare solo attraverso la metafora della sua stessa forma. Credere nella poesia del palcoscenico significa credere prima di tutto nelle scenografia, attraverso la quale si esprime. La scenografia è il primo modo con cui il testo riconosce se stesso nello specchio della scena.
Se questo articolo vi è piaciuto, vi invitiamo a leggere gli altri approfondimenti presenti tra le nostre rubriche, come quello dedicato alla figura del drammaturgo, un altro ruolo importante per la buona riuscita di uno spettacolo teatrale.