Eccoci ad un nuovo focus sui mestieri del teatro: lo spettatore. Il titolo di questo articolo potrebbe apparire come una provocazione, un non-senso, un gioco da teatro dell’assurdo, ma in realtà vuole segnalare che spettatori non si nasce, si diventa. Frequentare il teatro sistematicamente ha qualcosa di simile con gli apprendisti che “vanno a bottega”, interessati ad imparare il mestiere sul campo, attraverso la valente guida dell’artigiano.
L’affinità elettiva di goethiana memoria, che unisce idealmente la platea col palcoscenico è il risultato di un paziente lavoro e di una costanza, per certi versi simile a quella geologica, che porta alla formazione delle stalattiti e delle stalagmiti, ovvero al lento ed inesorabile accumulo di carbonato di calcio il quale, in questo caso, prende il nome di capitale di spettacoli visti. Per essere piacevolmente e favorevolmente contagiati dal teatro, da quella che non a caso Artaud definisce peste, bisogna esporsi più volte al contagio, bisogna che la presenza in sala vada a comporre un’ideale nuova versione dell’educazione sentimentale, dove l’oggetto del proprio amore sia il palcoscenico.
Certo esiste il coupe de foudre, in grado di riscaldare immediatamente la temperatura emotiva dello spettatore, di renderlo letteralmente febbricitante, di smuovere in lui il pigro trascinarsi dell’abitudine, l’ottundimento della vita psichica, della consapevolezza interiore, ma per far sì che non sia un fuoco di torba, od un episodico terremoto interiore destinato ad affievolirsi nella memoria, è necessario ripetere l’esperienza, tradurre la singola occasione in metodo.
Prendendo a prestito e modificando opportunamente la massima cartesiana, potremmo tranquillamente affermare: “Vado a teatro, dunque sono”. Un atto di civiltà, dunque è quello di varcare la soglia di un teatro, un modo con cui poter arricchire e perfezionare la definizione di cittadino, ed, in un senso più generale, una maniera per poter esplorare e cartografare tutti i territori sconosciuti della definizione umana, che trovano finalmente qui una dicibilità ed una precisa riconoscibilità.
In questo focus sui mestieri del teatro, emerge che lo spettatore può rappresentare una sorta di collezionatore di cimeli nel proprio baule teatrale, locandine, riviste di settore, biglietti, programmi di sala, testi teatrali, ed un ideale zibaldone, a metà strada fra quello dei comici dell’arte fatto di lazzi, di formule comiche ricavate e confermate dall’esperimento empirico scenico, e quello di Leopardi dove si insegna a dare un nome anche a quello che fa male all’anima, a quel dolore sordo in cerca di un autore che gli dia cittadinanza, prima sulla pagina drammaturgica e poi nel testo scenico.
Apparentemente si potrebbe credere che sia passivo il ruolo dello spettatore, che sia chiamato ad una funzione burocratico-giuridica di testimone. Eppure, come sempre, la pratica è distante dalla teoria. Perché in realtà c’è qualcosa di vivo, di estremamente dinamico nella sua stessa presenza. Già Aristotele aveva intuito che nel teatro c’è un meccanismo che potremmo definire di igiene sociale, psichica, un modo per pulire l’anima dalle scorie, la catarsi, la purificazione, evocata anche dalla psicoanalisi freudiana.
Una volta che lo spettatore si lascia agganciare dallo spettacolo, apre un patto narrativo, ovvero drammatico con ciò che viene rappresentato, vive il proprio atto teatrale, varca la soglia del puro e semplice voyeurismo, e si immedesima, si sostituisce, gioca tutto se stesso nella storia che vede agita e rappresentata sulla scena, proprio al pari di un attore che si rifaccia alle moderne tecniche di recitazione, a Stanislavskij, a Strasberg, a Meisner, ad Uta Hagen. Sfatando l’invalsa consuetudine che vorrebbe il teatro come luogo deputato alla finzione, lo spettatore, che si è fatto i capelli bianchi sulla poltrona delle platee che ha frequentato, sa benissimo che il teatro è il luogo della verità.
Una dimensione dove, per scriverla alla Pessoa, si finge che sia dolore il dolore che si sente veramente, dove, per riprendere il termine con cui gli antichi greci definivano questo concetto, si realizza davvero l’aletheia, ovvero l’assenza della dimenticanza. L’Itaca, la patria ideale dove l’uomo è furiosamente presente a se stesso ed agli altri è il palcoscenico, dove l’essere umano può cercare di esistere un po’ di più, dove si avvicina più del solito a trovare che cosa sia esattamente questa sua umanità, e tutto questo il nostro spettatore lo sa, concedendosi un sorriso sornione, finito lo spettacolo, esaurito l’applauso, poco prima di alzarsi dalla poltrona di velluto.
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