Nell’ambito della rassegna Teatro 2.0 Live Streaming “Ieri e Oggi” vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La signorina Else, che ha dato modo di gettare uno sguardo digitale su uno dei personaggi femminili che meglio riescono a restituire il sentore, il gusto dell’anima. Else non è semplicemente Else, è someone Else, è l’associazione libera di freudiana memoria di un pensiero che si dipana di fronte agli occhi dello spettatore.
Non è un caso che Schnitzler, l’autore del testo, in uno scambio epistolare con il padre della psicanalisi, abbia trovato un’affinità elettiva. Siamo all’interno di un flusso di coscienza, varchiamo la soglia, apparentemente invalicabile dell’in-sé, di quella camera oscura in cui si sviluppa la pellicola psichica. Quest’opera è la riuscita, meravigliosa sovrimpressione del reale, dell’immaginato, del possibile e dell’impossibile, insomma di quella dimensione individuale dove l’essere è sempre nel precario equilibrio di un’immagine o di una parola.
Nella solitudine della scena l’attrice riempie e proietta tutto l’immaginario del personaggio intorno a sé, attraversa la cornice degli specchi vuoti come Alice, ed è vissuta da questo mondo sottosopra, che è il nostro. La regista Anna Zapparoli accompagna l’interprete all’interno di ogni singolo fonema, si sente la traccia mnestica, gli umori del parto psichico che accompagnano Else istante dopo istante, frame dopo frame. Dietro ogni frase c’è l’abisso di un oceano di intenzioni e possibilità, un gioco di velamento e disvelamento che è il gioco stesso della psiche. Alle altitudini della montagna, quelle stesse che avrebbero dovuto curare l’anima di Nietzsche, vive un sogno tremendamente reale, un sogno che rischia di diventare un incubo, ma per evitarlo c’è sempre lì pronta una boccetta di Veronal sul comodino, per giocare il gioco serio di Amleto tra l’essere ed il non essere.
La proposta di von Dorsday, l’occhio bunueliano che scruta implacabilmente questo oscuro oggetto del desiderio, è quella di mettere definitivamente a nudo Else, di veder in una definitiva sovrimpressione l’anima ed il corpo così come sono per sé stessi e per l’altro da sé. Ma l’autore, ed insieme la regista e l’attrice sono bravi a ricordare che quell’occhio, allo stesso tempo lubrico e freddamente razionale nell’esprimere la proposta di questo particolare contratto voyeuristico, è anche e soprattutto quello dello spettatore che attende quella nudità, che guarda l’anima ed il corpo di Else con un brivido sottile. Else è uno specchio in cui vedere il proprio vedere, il proprio sguardo. La telecamera la cerca, la scompone, la cattura da diverse angolazioni, nel tentativo di comporre questo puzzle psichico, questi continui salti quantici verso diversi stati di coscienza. È in ritardo, come il bianconiglio, in ritardo sulle decisioni su sé stessa.
Corre veloce con le parole, le dice, le canta brechtianamente, giocando quasi ad entrare in terza persona. È brava l’attrice Benedetta Borciani a fare della sua anima un’orchestra pessoiana. È capace di danzare le battute con piede leggero, di lasciarsi andare ad una corda frenetica, tutta interiore, del personaggio. Poi c’è sempre il veronal sul comodino per dare un traguardo definitivo, forse. Benedetta trova in sé von Dorsday, si sdoppia nella vittima ed il carnefice, nella morte e nella fanciulla, va fino alle fonti di questo cuore di tenebra, e trova che il suo terribile Kurtz le è più vicino della stessa giugulare. La vicenda, l’ossessione della proposta indecente, le si ripropone proprio come la dinamica della partita a tennis che gioca all’inizio del testo, ossia il tentativo di ribattere la palla dall’altra parte, per poi ritrovarsela ancora lì, pronta ad essere nuovamente scagliata al di là della rete.
Il rapporto con il mondo condiviso con noi, ogni dialogo con gli altri, è tutto lì, chiuso nella metafora asciutta, essenziale di una partita a tennis. La partita di Else è estetica, è una sorta di gioco coreografico, formale, quella di von Dorsday è tutta tesa alla vittoria, è pronto a scendere sotto rete per attaccare e schiacciare una palla nell’angolo irraggiungibile, per arrivare il più presto possibile al gioco, set, partita. La protagonista vive la vita all’interno del suo stato mentale in cui ciò che vero e ciò che è falso hanno confini sfumati, qui il sogno di Cartesio non ha una soluzione definitiva, e la nudità di Else non è ancora l’ultima, l’estrema verità. Anche il veronal non è forse il finale vero, la tragedia di Else, di una Ifigenia in trasferta dall’Aulide alle Dolomiti, rimane con un punto di domanda.
La musica che ascolta Else è, tutto sommato, la chiave per decifrare la sua stessa vicenda scenica, tensione e risoluzione. Al raggiungimento di un apice, poi segue una discesa, e poi ancora una risalita. Nemmeno l’ultima inquadratura riesce a catturare definitivamente Else, lasciando a von Dorsday/allo spettatore l’appetito non ancora appagato, di un piacere sospeso, e per questo ancora più intenso, per l’impossibile visione di un corpo inconscio, di un someone Else, della parte in ombra, oscura, che è sempre un po’ più avanti. La protagonista, in fondo, parafrasando una felice immagine con cui Freud restituisce l’immagine dell’inconscio, è quella signorina di spalle di cui riesco a vedere la nuca, l’ombra proiettata nella caverna di Platone, che gioca una partita a tennis con il suo Destino.
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