Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Medea delle case popolari ha perso il centro, ideato e recitato dall’attrice Rossella Raimondi. Uno spettacolo che trova come scena della tragedia antica le nostre periferie, e la illumina con la luce del sorriso della commedia.
Quanti fonemi può contenere un singolo fiato? Quanto anima può stare nello spazio di un respiro? La risposta a questa domanda è tutta nella recitazione di Rossella Raimondi. Tu la senti parlare e ti esplode tutto un universo davanti agli occhi, ascoltandola senti che c’è un intero mondo carico dei colori di un quadro espressionista, c’è un’urgenza di mettere al mondo il proprio mondo, di condividerlo. E tra lei e Medea si ingenera immediatamente un’affinità elettiva, la natura dionisiaca di questa interprete si mostra in una recitazione tutta di pancia, da lupa verghiana. Trova il gioco brechtiano dei cartelli per l‘incipit di questo spettacolo, ci dice immediatamente che la sua Medea sarà unica, E avrà orgogliosa residenza nella periferia dell’impero/città. E se Testori aveva il suo dio di Roserio, la Barona avrà la sua dea, il suo personaggio che riscriverà la tragedia.
Risponderà di rimando con un sorriso alla beffa degli dei, con un occhio ad Aristofane e l’altro alla commedia dell’Arte. Il suo corpo è un perpetuum mobile, ed apre una competizione fino all’ultima battuta con la voce, entrambi battono sulla tastiera del testo scenico ad una velocità impressionante, e l’attrice non sbaglia la grafia di un gesto, e non manca di marcare una sola sillaba. Guarda frequentemente in macchina questa Medea, e lo fa con la forza visiva del primo piano di Maradona che festeggia l’ultimo gol dei mondiali contro la Grecia, sembra che gli occhi lascino tracimare il dio dell’ebbrezza, sembra la più convinta Arianna pronta a lasciarsi andare al corteo di Bacco. Ha uno stendino come compagno di scena, un meraviglioso objet trouvé di duchampiana memoria, una versione futurista, una geometrizzazione mondrianiana di Giasone. Inventa con esso mille coreografie, lo rende qualunque cosa.
Restituisce a questo oggetto gli dei che Talete trovava in ogni cosa. Come la pipa di Magritte è tutto, ma qualcosa di diverso da un semplice stendino. Rappresenta l’esempio concreto della lezione di Peter Brook, come nell’essenzialità della scena si ritrovi tutto il potenziale della sostanza del fare teatro. Questa è la Medea in grado di accogliere in sé Euripide, Virginia Wolf, Alvaro, è la maga, quella che non può abitare nella “reggia” del centro città, la diversa che fa della sua diversità uno stendardo, un potente e tonitruante cri de guerre. Incarna anche gli altri, gli stranieri che abitano questa banlieu milanese. Ci restituisce ogni ritratto di questo mondo esotico, e si ha l’impressione di sentire lo sferragliare ideale degli appendini sul porta-abiti, e del frusciare dei vestiti dei personaggi e dei caratteri che, con rapidità fregolistica, riesce ad indossare e cambiare.
Con la furia di una Erinni chiede di essere riconosciuta, domanda di essere percepita, e quindi di poter essere su un palcoscenico, chiede il nostro sguardo ed il nostro ascolto con la forza di un mare in tempesta. Trova un’interattività con il pubblico, che sulla carta sarebbe impossibile nella smaterializzazione del digitale, eppure, dalla parte del monitor dello spettatore, si avverte distintamente l’odore di anima ed insieme della carne. E la suda tutta quell’anima Rossella Raimondi, traspira anche quella che non ha, ci dona tutto e anche di più. Quanto è generosa questa Medea delle case popolari nel darsi, nell’offrirsi sull’ara dell’altare multimediale, facendoci sentire lo sfrigolio ed il fumo invitante della parte della carne che era riservata alle divinità. Si mura nella sua stanza la protagonista, come il Pink dell’opera rock The Wall, e dopo tutto noi potremmo essere i mattoni di quel muro, trova una sua forma di protesta estrema.
Si inventa una famiglia paradossale con lo stendino e dei figli-stendini che giocano l’estrema partita tra l’oggettività e la soggettività. Si inventa quella cattività, quella forma di esclusione, quasi fosse una sorta di rimedio omeopatico per combattere il male con il male. Ma quel muro non può che cadere, e la protagonista ha un sorriso che non può spegnersi, come la fiamma di Prometeo. La sua risata è lo spirito più vero, più autentico del komos, di quello stato di gioia, di entusiasmo, nel senso etimologico di avere la divinità dentro di sé, delle antiche cerimonie che celebravano la fertilità. È contenta di esserci Medea, di essere fra noi, ed idealmente sembra proporci il girotondo del finale di 8 ½ di Fellini, è la vita che non perde la sua luce, e si fa specchio per mostrarci che anche nella nostra si può riscoprire la stessa luminescenza.
Quando Rossella/Medea delle case popolari sorride, ci regala qualcosa di più di un semplice sorriso, ci dona la forza stessa, che sta dietro a quell’atto, quell’infaticabile, incrollabile spirito di un Tantalo che magari fallirà, ma, come ci ricorda Beckett, non importa, fallirà ancora, fallirà meglio. E visto che non ha un Euripide a disposizione per fornirle un deus ex machina, ovvero il dio sole che le presti il suo carro andarsene altrove, si inventa lei quel dio che dovrebbe salvarla. E ritrova tutta quella luce nel suo sguardo, negli occhi bistrati come quelli della Callas nel ruolo di Medea, e nella gioia e nell’euforia che traspare da quella decisa piega della bocca, da quell’arco che chiamiamo sorriso.
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