Recensendo Godot, con questo titolo affrontiamo insieme il tema della chiusura dei teatri e di un futuro ancora artistico assai incerto. Perché l’attesa di Vladimiro ed Estragone si è conclusa, Godot è finalmente arrivato, peccato che ad accogliere la sua invisibile presenza non ci sia anima viva, nemmeno i due personaggi beckettiani, entrambi, infatti, hanno deciso di ignorare la didascalia che li vorrebbe immobili.
I teatri, da ottobre, sono nuovamente vuoti e, una volta tanto, non si tratta del “forno” paventato da ogni impresario teatrale, ma di un vuoto necessario, una profilassi sociale che ci tiene lontano da un’agorà, la quale ci faceva compagnia da più di venticinque secoli. Qualcuno potrà dire che è come se fosse tornata la quaresima, quel periodo in cui era interdetto ai teatranti la possibilità di andare in scena, e, per la cronaca, ecco svelata la ragione dell’idiosincrasia dimostrata dalle persone di spettacolo nei confronti del viola, tipico colore dell’addobbo del periodo.
Si sono chiuse le porte con la solennità dell”extra omnes” del conclave, e chissà se quella sala abitata tante volte da sentimenti, pensieri, azioni, in grado di stravolgere e creare una zona d’ombra tra il concetto di verità e quello di finzione, riuscirà a pensarsi ancora esistente, senza gli occhi della platea a certificarlo, forse sarà come il gatto utilizzato nell’esperimento di Schrödinger, intrappolato in una sorta di schizofrenia esistenziale, vivo e morto al tempo stesso. Difficile da comprendere ma molto semplice da percepire. Eppur si muove, e lo scriviamo con piglio galileiano, eppure si ribella all’inerzia forzata, non rinuncia a quella funzione che lo rende vicino all’uomo più della sua stessa giugulare.
Questa forma di meraviglioso umanesimo, questo laboratorio di antropologia, psicologia e di poesia incarnata, non si arrende, non può, è nella sua natura resistere, il carro di Tespi si muove anche dopo essere stato distrutto dal pugno dei Giganti pirandelliani, dai problemi economici, ogni volta rinasce dalle sue ceneri, come una fenice ostinata. Ora c’è davvero una ragione in più per farlo, ora c’è la voglia e la pazzia giusta, c’è il desiderio di vivere, quando si potrà, sul palcoscenico quel caldo brivido di confusione che fa arrossire l’astronauta, come cantano i Pink Floyd.
Così in questa necessaria interruzione, cresce, monta, riprende coscienza di sé quella passione teatrale evocata da Jouvet, quella che si scopre sempre alla fine di un percorso, che ritorna in forma di certezza come la nottola di Minerva, e testimonia che, malgrado tutto, questo mestiere così difficile, che va a cercarsi il pubblico come Diogene l’uomo autentico con la lanterna, che combatte con il gelo e gli spifferi di certi camerini, la bolletta, ed i pugni in tasca, è un’arte meravigliosa, e bastano gli applausi, la presenza calda, emotiva di un pubblico per toccare letteralmente il Nirvana con il corpo.
Certo l’impresa non è facile, e sembra essere un ossimoro, se non un vero e proprio paradosso, di questi tempi: trovare un contatto col pubblico che non implichi la presenza ma solo la dimensione virtuale dello schermo di un computer, di un tablet, di uno smartphone, insomma quella zona che sta a mezza strada, una terra di nessuno, tra il mondo reale ed il mondo iperuranico delle idee. Tuttavia, proprio come ci insegna il mito platonico, il teatro ora deve tornare nella caverna, non può fare altrimenti, e può sfruttare l’occasione, invero preziosissima, di spiegare alle persone ferme davanti al muro multimediale ,costrette a guardare l‘apparenza di un mondo di fronte al mondo, che esistono oggetti e luci cause di quelle apparenze, che esiste un mondo di fuori che ora deve attendere, ma poi potrà essere vissuto con una consapevolezza profonda, e non nella catatonia del banale troppo spesso ormai omologata al quotidiano.
La sfida è quella non solo di tenere vivo e vitale l’appetito nei confronti del teatro, ma anche soprattutto risvegliare quello di chi, anche prima della pandemia, era addormentato; uso questo termine nella convinzione, sposando l’innatismo platonico, che in ogni essere umano ci sia l’acciarino necessario per provocare la scintilla in grado di accendere la passione per questa forma artistica.
Si può sfruttare quel teatro delle ombre a proprio vantaggio, per far scoprire, oltre alla cultura, parola che più che la mano alla fondina goebbelsiana, ora provoca il riflesso pavloviano della mano sullo smartphone che così facendo nuovamente si presenta per l’ennesima testimonianza del “mi riprendo, dunque sono”, qualcosa che ci appartiene ed è patrimonio universale di tutti. Una sensazione comune di appartenenza artistica, un canto pieno di poesia e di vita a tutte le latitudini, dal più profondo fango terreno, allo sguardo vertiginoso che sfida lo zenit del più alto empireo: il teatro.
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