Nell’ambito della rassegna Teatro 2.0 Live Streaming “Ieri e Oggi” vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Smartuorc – La vita ai tempi del pane fatto in casa, un monologo comico per descrivere le difficoltà della vita domestica 2.0, quando ci si prepara alla ennesima call con una giacca per la webcam, ed un paio di ciabatte fuori inquadratura.
Alessandra Faiella ha una dote sua, naturale, che dà mostra di sé non appena comincia i suoi spettacoli, la capacità di mettere immediatamente a suo agio lo spettatore, di trasformare le sue parole in un salotto accogliente in cui lo spettatore si accomoda volentieri. L’effetto dei suoi fonemi ininterrotti, piacevolmente torrenziali, è lo stesso di una doccia calda, quando metti sotto lo scroscio d’acqua il viso, e ti godi quella sensazione liquida che ti risveglia naturalmente, quasi inconsciamente, un sorriso. Sorride questa attrice, ma il suo sorriso abbraccia la sua vocalità, la sua stessa anima di interprete, è quel personaggio di famiglia che, quando inizia a parlare, non si può fare a meno di ascoltare, in grado di cacciare via le ugge e quei nuvoloni dello spirito che annunciano pioggia sul proprio umore.
Inizia il suo monologo in una cucina, e, impastando la farina, racconta con naturalità le psicopatologie della vita quotidiana nell’era della pandemia. Trasforma il senso del disagio per la cattività domestica, necessitata dall’emergenza sanitaria, e lo sublima in un testo comico in grado di dimostrare che questo genere è tutt’altro che figlio di una Musa minore, ha la capacità di trovare in un sorriso, in una risata, un farmaco per le difficoltà dell’anima. Si muove lesta l’attrice tra le parole, ma le marca tutte, le timbra, le impasta proprio come fa con la farina che ha tra le dita. Ci dà testimonianza di come ci si trovi in questa particolare versione contemporanea, domestica, della caverna di Platone, nella quale le ombre con cui ci si relaziona diventano le conference call, le lezioni online, gli sfondi di Manhattan, per costruirsi una grottesca appartenenza geografica alternativa.
Ha il suo Hal 9000, il suo computer senziente calato da un’odissea nello spazio (del supermercato), ossia Alexa, una voce informatica, un controcanto, una spalla comica che si aggiorna all’era del 2.0. Anche lei vuole esserci, trova una sua certezza cartesiana nel dirsi, nel parlare, nel raccontarsi. Anche lei ci prova a sentirsi un po’ meno sola. Diventa un grillo parlante, una delle voci di dentro del personaggio, racconta le verità, le intenzioni devianti, è la concretizzazione vocale dell’insopprimibile voglia, del desiderio dell’altro, di costruire una dialettica, un dialogo surreale. I nastri di Krapp di beckettiana memoria hanno trovato una sorta di postfazione, di versione aggiornata, in questo supporto informatico con cui si può improvvisare un po’ di surreale socialità. Beckett è evocato non a caso per un personaggio che, al pari di quelli del drammaturgo irlandese, trova un suo ridotto di resistenza nelle parole, nella forza del linguaggio.
D’altra parte, lo diceva già il personaggio di Novecento, “non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”. La Faiella diventa una sorta di Winnie che si inventa una versione casalinga dei suoi giorni felici, mentre finisce idealmente coperta dalle spesa, dagli appuntamenti on line, dalla presenza di Alexa, e dalle confezioni dei gel disinfettante. Riesce meravigliosamente ad alleggerire l’attesa quotidiana e condivisa di un invisibile Godot, una sensazione che fatalmente si prova tra le mura domestiche, riesce a calarsi con la duplicità di una arlecchina servitrice di due padroni, nei panni di Vladimiro ed Estragone, ed insieme in quelli di Lucky e Pozzo. Al posto di una scarpa da maneggiare ha un impasto di farina, le mani da disinfettare continuamente, ed ha uno di quei sorrisi che non possono non contagiarti, anche attraverso la distanza di uno schermo digitale.
Non c’è una pausa, non un’interruzione, non un fiato che non abbia in sé il prezioso capitale di una comicità genuina. L’ipotetico secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla commedia, evocato da Eco nel suo libro Il nome della rosa, è scritto idealmente ogni volta che un buon testo comico, come questo, viene recitato. C’è anche qui una catarsi, una purificazione, eccome se c’è, ridere aiuta a depurarsi dalle tossine, è l’invincibile atto con cui l’essere umano risponde di rimando alla beffa degli dèi, è il modo con cui dichiara la sua essenza, la sua battaglia contro le sventure della vita, incoccando la freccia dell’arguzia, e piegando l’arco, che guarisce al posto che ferire, quello della bocca che si incurva in un sorriso. Ma il monologo sa farsi serio sotto il finale, diventa una preghiera, il sogno di Martin Luther King.
L’attrice esprime la speranza che si possa uscire a rivedere le stelle, per scriverla alla Dante, che si possa ritrovare gli abbracci, vivere tattilmente la presenza dell’altro. E questa invocazione acquisisce ancora più forza visto che chi la pronuncia, chi la incarna, è un’attrice, la quale ha una necessità, un desiderio invincibile, per statuto, per sua stessa essenza, della presenza della platea, e dei suoi fiati da sentire, e degli abbracci che sono tutti ì pronti ad esplodere tra il proscenio e la prima fila. Non si può fare a meno di applaudire alla fine dello streaming, e non per un riflesso pavloviano, ma per esprimere quella gioia, quel tributo di riconoscenza che ha urgenza di dar mostra di sé, una impossibile pacca sulla spalla sublimata in due mani che si toccano e cominciano ad applaudire.
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