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Antonio Mocciola

Deledda’s revolution – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Deledda's revolution

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Deledda’s revolution. Il testo è di Antonio Mocciola, e la regia è curata da Diego Galdi. Gli interpreti sono Valeria Bertani e Luca Pala. La piece è la storia dei due Deledda, Grazia e Santus, il cui destino è giocato sulle ginocchia di Zeus.

Bastano due personaggi per riempire una scena, un uomo e una donna, la storia universale, la storia di sempre. Grazia Deledda e Santus Deledda, ovvero Oreste ed Elettra. E la tragedia e sempre lì, potente come quella antica, iscritta insieme nella carne e nell’anima, come fa il vento con sassi della Sardegna. L’unica differenza è che la vicenda si consuma più lentamente, un po’ alla volta, ma gli dèi non sono meno implacabili, i sentimenti non sono meno forti. Un fratello e una sorella hanno un filo invisibile che li lega l’uno all’altro: biologico, certo, ma, soprattutto, metafisico. Hanno la certezza di essere parte di un unico essere androgino, diviso per sempre, come nel mito del Simposio di Platone. Il loro è un canto verbale struggente, disperato, di chi vorrebbe essere oltre il proprio essere, chi ha nostalgia di un impossibile paesaggio dell’anima, e non si accontenta del confine del proprio io.

L’individualità è un peso lancinante, il peso pessoano del dover sentire, dell’essere separato fatalmente da tutto ciò che non si è. Ognuno dei due ha un modo diverso per lanciare la propria sfida prometeica al cielo: Grazia scrive, mette al mondo il suo modo in forma di parole sul foglio, svela il terribile inconscio della sua terra, lava i panni etici, spirituali, sulla pietra della pagina, e questo, molti suoi conterranei, non lo perdonano. Santus beve, ha un dio dentro che non è facile contenere in un singolo corpo. E Dioniso respira male, su un’isola che nasconde a se stessa la propria ombra. Il diverso, la pecora nera, quello che marcia a un ritmo diverso, marcia a tempo di danza, si muove circolarmente, in un valzer di gesti e di parole che si piega nel disagio; il suo collo si piega di fianco, come una canna al vento.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

E quanto quel vento faccia male alla sua anima indifesa, senza la pelle, i muscoli e i tendini a filtrare e attutire l’impatto, devastante, di quell’aria mossa sui nervi invisibili dello spirito, lo può sapere solo lui. E ce lo fa capire, intuire, con una parola che strappa dalla roccia dura della cadenza di quella lingua isolana; un fiore che si ribella all’aridità, all’infecondità della pietra. Ecco, questo testo sa terribilmente di salsedine, di mare sanno le parole di questi esseri, che sono un po’ come l’albatros della poesia di Baudelaire. Hanno ali grandi, enormi, a loro apparterebbe per natura il cielo; quando sono costretti alla terra, caracollano su zampe poco adatte a quel passo.  Divengono oggetto di scherno, ma hanno tanta di quella poesia, trasudante dalla loro carne, che potrebbero riempirne il mondo intero. Antonio Mocciola scrive un testo che viene direttamente dal muscolo cardiaco, senza mediazioni.

Hanno avuto spazio giusto le sue dita, che avranno dovuto danzare a tempo con diastole e sistole. Questa drammaturgia è dannatamente vera, mette i piedi nudi sul terreno puntuto della Gallura, della Sardegna tutta, e fa sentire letteralmente  la fatica di camminare su quello strano cielo rovesciato che si riempie di rughe, che invecchia, che subisce la violenza virile, gli schiaffi degli elementi naturali. E che guarda con orgoglio ostinato, con gi occhi aperti del proprio mare, chissà quale antica divinità, che, un giorno, lo abbandonò su quel lembo di terra, come Teseo fece con Arianna. La regia di Diego Galdi è tutta a disposizione degli interpreti: paziente opera di mani esperte, delicate, in grado di maneggiare il bozzolo di questa seta drammaturgica. Ogni fonema, ogni singolo gesto è la volontà di mostrare l’universale, i tremila regni che vivono in un singolo istante.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

La poesia si sforza di trovare una propria dicibilità, di narrare la luce, così come la si potrebbe vivere con gli altri sensi. Allora l’impossibile diventa possibile, perché, dietro un abbraccio con cui il personaggio cerca di consolare se stesso, dietro un momento in cui la parola si fa sacra, muovendosi ieratica sul terreno dell’etere, come un antico personaggio del teatro Noh giapponese, c’è tutto un mondo da scoprire. Una realtà profonda quanto lo è il mare della famosa canzone di Dalla, calore disperato di un sole che persino l’occhio di un dio stenta a conoscere. Valeria Bertani è una Grazia fatta di petali dell’anima, una rosa che anche il vento più leggero potrebbe rapire. Ci mostra tutte le pieghe del suo delicato tessuto interiore, ci invita a provare la sensazione impagabile,insostituibile, di sentire con i polpastrelli quella sostanza leggera, trasparente, serica.

E poi guarda, e quando guarda va ben al di là della semplice azione; è un po’ come se si dimenticasse di se stessa e diventasse l’atto stesso dell’osservare, non più suo, non nostro; è una visione che si vede da sé sola, è una parola visiva che scopre la sua luna e, con un gesto scopre se stessa, per un lungo, lunghissimo, meraviglioso istante. E quando esita, quando è doloroso il parto della parola, ha qualcosa di mariano: diventa la madre non solo delle sue emozioni, ma delle nostre, di quelle di tutti, e colora la scena di una pietà, di una compassione speciale, in forma di statua vivente sul palcoscenico. Luca Pala è, immediatamente, ogni parola della canzone di Don Backy Sognando: è il folle che conosce la carne del mondo, in quanto sua stessa carne. Beve religiosamente, come un monaco orientale pronuncerebbe per ore e ore lo stesso mantra. I suo fonemi sono una preghiera cristica, disperata, lancinante. La sua lingua frusta tutte le ombre che lo abitano, non fa sconti a se stesso  e a noi spettatori. Ha sorrisi dolorosi che ti entrano dritti dritti nella pancia, che ti fanno sentire qualcosa, prima di poter dire di che si tratti. E’ una candela al vento, la stessa della canzone di Elton John, e, ostinatamente, oppone il suo precarissimo esserci a quella potente forza naturale. La luce nelle sue pupille, e nelle sue parole, è la stessa che dardeggia sul mare, è viva, cangiante. Santus ha più vita di quanta ne potrebbe accettare il mondo che lo circonda; e le catene del perbenismo, di vite che si soffocano dentro se stesse, pesano terribilmente sulle sue ali. Tutta la platea ricambia la generosità degli interpreti con un meritatissimo applauso.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

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I mali minori – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo I mali minori

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo I mali minori, una storia liberamente tratta da “L’immoralista” di Gide. L’autore del sapiente lavoro di alta sartoria drammaturgica è Antonio Mocciola, la regia è curata da Diego Galdi, gli interpreti sono Alessandro Grima e Valeria Bertani.

Due solitudini si incontrano, sul cuscino delle nozze, pronte fin dall’inizio a nascondere la spazzatura bergmaniana sotto il tappeto della loro unione. Un uomo e una donna respirano l’odore della paraffina spirituale scandinava di Strindberg e di Ibsen, una si convince che quell’odore le piaccia da sempre, l’altro preferisce quello acre della carne di giovani. D’altra parte, Nietzsche l’aveva scritto, l’uomo non può facilmente credersi un dio a causa del bassoventre, ma forse a un dio pagano può avvicinarsi a quello che, più degli altri, ne rappresenta il più scomodo ed incontenibile istinto, Dioniso. E proprio come un Dioniso appare l’uomo, un dio malato, che ha bevuto la pozione cristiana che ha cercato di avvelenare Eros, ma l’ha  trasformato fatalmente nel suo doppelgänger, nel vizio. Ancora una volta ci soccorre il filosofo tedesco della volontà di potenza per trovare la chiave di lettura psicologica in grado di svelare i personaggi.

L’aforisma che esprime tutto questo è il seguente: “gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno”. Questo capita prima al marito che si ammala di tubercolosi, e poi alla moglie che sarà colpita dallo stesso male. Come per l’acrobata sul trapezio di Wenders, forse il tempo stesso per i personaggi è la malattia, la condanna a trovare nella loro carne tutta l’urgenza e la causticità della questione esistenziale. La felicità ha tutta l’impressione di essere uno degli istinti repressi, anzi il più nascosto, e la vita rimane in una sorta di cattività babilonese, lo spirito si trova in una prigione ben angusta. Il tentativo di una fuga rimbaudiana verso l’Africa, verso un sud, insieme dei sensi e dell’anima, pare sortire l’effetto desiderato sull’uomo, che guarisce, e sembra riconciliarsi con la sua vera natura, ma l’Eden dura giusto un attimo, e le stagioni all’inferno ritornano con il menage familiare.

Immagine della recensione dello spettacolo I mali minori

Si ripresenta l’angusta maschera di ferro della morale comune, di quelle che il poeta Blake definiva mind-forged manacles. Il drammaturgo Antonio Mocciola accende decisamente la miccia del materiale dinamitardo di Gide, offre allo spettatore, idealmente, le rose di Tennessee Williams, e sta ben attento a lasciare le spine sui gambi perché nel pungersi si avverta tutta la crudeltà della bellezza. La zona dell’Altro lacaniano, dell’ombra junghiana, di quel regno oscuro di significati vischiosi come la pece, appartenente ad Ade, alla psicologia del profondo, di certi abissi inconsci, che non conoscono luce, è espressa, attraverso la sua attenta scrittura. La parola è una Justine che deve necessariamente subire la tortura di Sade, dal momento che nel farsi male, nel danneggiarsi, esprime il sangue fonetico della verità. Il regista, Diego Galdi, ci mostra le inquietudini dei corpi, gli atti mancati, le intenzioni devianti, quel desiderio inibito, che si fa sudore, sofferenza.

Si esprime in un grido di guerra, il grido dell’animale ferito con la zampa imprigionata nella tagliola del “tu devi”. Ci sono dei primi piani che non sono semplicemente primi piani, sono paesaggi di un cielo umano, sono orbite vuote, ma piene di un luccicante buio. Gli occhi trasmettono la luce di un astro remoto, di un’anima remota che comunica da chissà quale passato, o quale futuro, nell’istante, nell’immagine in movimento dell’infinito. Brillano come se non ci fosse un domani gli occhi di lui e gli occhi di lei, sono degli dei piantati nel viso dei due protagonisti, due divinità che respirano male nella carne del compromesso. Alessandro Grima è un Cavaradossi che non hai mai amato così tanto la vita, e ce lo dimostra con certi sguardi, con certi gesti, con delle parole che ostinatamente portano con sé il profumo impossibile, il profumo dell’invisibile.

Immagine della recensione dello spettacolo I mali minori

Si impone la presenza di ciò che stenta a vestirsi con i poveri cenci delle parole. La nudità a cui arriva è catartica, pura, innocente come quella di un bimbo. Riesce a rendere tutta l’incontrollabile potenza di una cerimonia pagana, di un rito misterico, in cui si rinasce dopo aver attraversato il proprio inferno. Inspira il fuoco e lo gela nell’ombra della sua inquietudine. Valeria Bertani è una moglie cristianamente devota e abitata da una baccante, da una sacerdotessa di Dioniso. Ci mostra tutto il dolore, il sangue, la saliva, di una mordacchia della morale che intrappola le parole che deve ingoiarsi dentro, o meglio nei suoi scritti. Si ammala fatalmente anche lei dell’istinto che non trova modo di esprimersi, e proprio questo è il momento in cui esprime lo spirto guerrier che dentro le rugge. Incanta il suo canto del cigno, quel corpo pittoricamente abbandonato sulla poltrona.

È l’immagine forte, potente, definitiva di una vita che ha vissuto la dike, la vendetta divina, senza aver potuto gioire dell’hybris, del tentativo di superare se stessa, i limiti imposti. È la tragedia doppiamente tragedia, quella che manca a se stessa, è l’ancilla domini la cui promessa di gravidanza viene tradita, è la luce che sfuma da chissà quale orizzonte. Lo spettacolo rende omaggio a questo Gide che si siede brechtianamente dalla parte del torto, che si muove nel territorio al di là del bene e del male, che esprime quanto la fame umana di assoluto sia eternamente insoddisfatta al pari di quella del mitologico Tantalo. Alla fine, proprio un momento prima che si sciolga la catarsi degli applausi, si affaccia un’intuizione definitiva, in grado di diventare l’essenza dello spettacolo: “ L’inferno è abitato da struggenti amori equivocati, da esseri che almeno hanno avuto il coraggio di provare ad amare”.

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