È tanto che non bevo champagne… Dieci quadri sulla lontananza – Recensione Teatro
L’intuizione meravigliosa di questo spettacolo, proposto, come evento online dal Teatro Elfo Puccini, è che si può dare alle immagini digitali il tocco e la grazia di Chopin sui tasti di pianoforte. Proprio come suggeriva il musicista polacco ai suoi allievi, con le dita più lunghe, indice, medio ed anulare poste in corrispondenza dei tasti neri, ed il pollice e l’indice pronti sui tasti bianchi non contigui a destra ed a sinistra. Tutto questo per costruire una meravigliosa danza di immagini straordinarie che sono esse stesse, per una magia sinestetica, musica per il cuore.
Francesco Frongia, autore del progetto visivo, dimostra che nella caverna di Platone della multimedialità possono nascere anche immagini gentili, visioni dolci come le carezze evocate dalle parole e degli sguardi dei personaggi čechoviani. Sarebbe sbagliato definire questa costruzione visiva una serie di ambienti virtuali in cui far muovere ed interagire i personaggi, piuttosto sembra di vedere un delicato bozzolo digitale, una pennellata di frame leggera, per rispettare e valorizzare la seta di un carteggio che scivola come potrebbe scivolare l’anima sulla pelle. Con delicatezza assoluta, dall’inizio alla fine.
Si parlano, si scrivono, Čechov e sua moglie, l’attrice Olga Knipper, attraverso la voce ed i corpi di Ferdinando Bruni ed Ida Marinelli, che compongono la coreografia di un delicatissimo pas de deux, vissuto interamente nelle intenzioni, nella danza di fonemi fatalmente contagiati dalle stagioni del cuore. Si assiste al miracolo di sentire quanta la voce possa far saltare, prendere, lasciare, e poi di nuovo afferrare un corpo, abbracciarlo, trovando le braccia che non ha, e che riesce ad inventarsi con la forza delle emotività che smuove. Si raccontano i sei anni della storia d’amore dei due personaggi. Sei anni che riescono ad essere il lungo, lunghissimo istante di felicità vissuto dal personaggio del sognatore di Dostoevskij.
Una pioggia fine fine di parole, riversata in un fittissimo carteggio, dove il teatro e la vita si incontrano, si sovrappongono, cade dolcemente sullo spettatore, ed è gentile ed è aggraziata. È la foto di tutti i sorrisi di sincera compassione che Čechov fa al mondo ed a se stesso. Si assiste idealmente alla summa delle opere del drammaturgo russo, alla sua essenza. Si assiste ad un’operazione a cuore aperto, e si ha la netta sensazione di poterlo toccare, quel cuore. Di sentire quel battito, di poter sentire il calore degli atrii e dei ventricoli, di quel muscolo mai veramente compromesso della tisi, in grado di pensare pensieri pascaliani che la mente non conosce, in grado di segnare come un metronomo il tempo di una potente creatività teatrale. Impeccabile e puntuale.
Sono a distanza queste due creature, e per questo si scrivono, l’una impegnata nelle prove e negli spettacoli teatrali, l’altra in cerca di requie dalla febbre della noia, a Jalta, nella sua tiepida Siberia. Eppure sono anche così vicini, come se le parole riuscissero ad arrivare là dove persino il tatto fatica a giungere, negli spazi segreti del’anima. Hanno un corpo le parole, ed hanno gambe, e camminano veloci, e sono tutta la vita, anzi di più, sono anche tutta quella che potrebbe essere, tutti i fiati che Čechov fatica a prendere, i fiati che non potrà respirare, ma che sono lì in forma di lettere, che sono un atto d’amore insieme ad Olga ed alla vita tutta senza tentennamenti di sorta.
Ferdinando Bruni ha una misura eccezionale, il pudore ammirevole di un attore che lascia parlare le parole, la sua vocalità trova giù giù nel ventre il tono giusto dell’anima, si lascia essere tutte le frasi, canta parlando il suo Let it be čechoviano, si abbandona alle chiare, fresche e dolci acque che scorrono attraverso il susseguirsi delle parole, traduce in recitazione gli sguardi ed i dolci sorrisi di un autore che ha nostalgia anche del più lontano futuro. Ida Marinelli gioca se stessa interpretando la moglie Olga, l’attrice incarna l’attrice, e la finzione della finzione diventa la più alta verità interiore, finge pessoanamente che sia emozione, l’emozione che prova veramente.
È lo specchio vivo di Čechov, si lascia recitare dalle parole che riceve e da quelle che dona, rappresenta l’immagine di carne di tutta l’esistenza che l’autore russo non potrebbe vivere, quella possibilità di poter bere tutta la vita d’un fiato e “non a piccoli sorsi interrotti”. Diventa l’Arianna che sa ancora di Dioniso e della sua ebbrezza, che ha voglia di vivere infiniti copioni teatrali e di vita, ma è anche Penelope in grado di attendere pervicacemente il suo Ulisse, di evocarlo in mille preghiere di carta, fatte di un epistolario ostinato, costante quanto la stella polare. In 10 quadri conosciamo quanto due spiriti possano essere perfettamente e completamente se stessi attraverso le parole che usano per raccontarsi.
Lo scenario digitale è fatto da case abbandonate, da pianoforti malati la cui musica continua a suonare nella testa e, soprattutto, nel cuore, da teatri vuoti che sono la voce più immediata di un abbraccio che l’uomo vorrebbe selvaggiamente e disperatamente fare a se stesso, alla sua più profonda natura. Il racconto struggente del finale di partita esistenziale di Čechov, nelle latitudini della foresta nera, di una selva oscura dove forse, con buona di pace di Dante, forse è un bene che la diritta via si sia smarrita. Proprio come un suo personaggio, sublima perfettamente le lacrime, bevendo un’ultima coppa di champagne assaporandolo goccia dopo goccia, regalando, con un gesto, il migliore dei suoi dolci sorrisi.
Se questo articolo vi è piaciuto vi ricordiamo che potrete leggere altre recensioni all’interno del nostro sito, approfondendo il mondo del teatro attraverso una delle numerose rubriche che abbiamo pensato per voi oppure ascoltando le puntate del nostro podcast.