Tra i binari – Recensione Teatro
Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Tra i binari. L’elaborazione drammaturgica, la voce e il canto sono a cura di Cristina Castigliola. Gli arrangiamenti e le esecuzioni dei brani musicali sono curati dal pianista Carlo Buongiovanni.
Il treno sembra fatto apposta per seguire i ritmi dei pensieri, per essere un attaccapanni dove appendere i propri sentimenti, anche quelli più nascosti, e renitenti alla luce della coscienza. Ti lascia il tempo di un saluto alla partenza, ti fa scorrere le immagini dal finestrino, come fossero un film del paesaggio. Tutto questo, Cristina Castigliola lo sa, e si inventa un meraviglioso omaggio teatral-musicale a questo mezzo di locomozione che è entrato, a buon diritto, nel nostro immaginario collettivo, quasi un archetipo junghiano. Cristina, poi, ha un modo tutto suo di stare in scena: ogni cellula del suo corpo esprime, anzi, letteralmente, esplode in una irresistibile joie de vivre. Si abbandona allo scorrere del testo con naturalezza, si bagna di parole; si diverte, idealmente, a schizzare il pubblico con quell’acqua fonetica. Avvertiamo l’inequivocabile calore, la vampa di una passione teatrale che brucia con generosità.
Ma, più di ogni altra cosa, è capace di prendere su di sé il ritmo dello spettacolo. Sale sulle note dell’Honky Tonk Train Blues e sembra una Arianna in love per il suo Dioniso, una Baccante che comincia a riprodurre quegli inconfondibili sbalzi che accompagnavano i viaggi sui treni a vapore; emana il fascino irresistibile del movimento di una freccia meccanica scagliata, da un oceano all’altro, nell’America dei grandi sogni. E sono davvero grandi i sogni dell’interprete, che li coniuga, uno per uno, tutti legati al treno. Non può mancare C’era una volta il West: la musica inconfondibile di Morricone, che, più che musica, è uno stato dell’anima, un discorso interiore altrimenti incomunicabile a parole. E come per magia, appare Claudia Cardinale, la donna fatale del film, che atterra con i sorrisi meglio di un bounty killer con la colt.
E come sorride Cristina, con la naturalità con cui voi od io potremmo bere un bicchiere d’acqua. Pare che tutto il suo essere si inarchi come due labbra, per diventare quel sorriso in purezza, che dona il senso più profondo allo spettacolo. Un po’, tanto per rimanere nel territorio leoniano, come l’enigmatico e risolutivo sorriso di Noodles nella fumeria d’oppio. Carlo Buongiovanni, il pianista, scivola, con le sue note, come fosse un vestito di seta, tra le parole dell’interprete. Trova con l’attrice una goethiana affinità elettiva, una complementarietà. E, proprio come funziona per certi paesaggi fatti di cielo e mare, non si potrebbe dire con certezza dove finisca la musica e incominci il testo. Avviene un vero processo di osmosi, di scambio continuo; la mano sulla tastiera diventa la danza di parole e di corpo di Cristina, che si lascia attraversare dal brivido elettrico della musica.
Non mancano brani più contemporanei, sempre legati al treno. Una struggente interpretazione de I treni di Tozeur, in cui la voce, gravida di anima, ne fa sentire il profumo all’ascolto. La stessa cosa avviene per il testo de I treni a vapore, in cui il corpo diventa tutto insieme vocalità, si mette a disposizione del canto, in esso si sublima e si trascende. E’ generosa l’interprete nel donarsi, nel donare la propria luce guizzante, come quella del sole sul mare. Ha urgenza di farsi Pizia, sacerdotessa dell’antico rito teatrale, di giocare seriamente con la propria recitazione, di costruire un quadro mettendo i colori con le mani, sporcandosene felicemente, e invitando il pubblico tutto a godere, insieme a lei, di questa festa. Ed ecco riapparire, idealmente, il nume tutelare del teatro, Dioniso, nello spirito di una creatura, che è un inno alla gioia incarnato.
Esprime l’ebbrezza che ti dà un vino tannico e generoso, la voglia invincibile di fare della vita tutta un canto, di festeggiarla, di onorarla su di un palcoscenico. Se c’è ancora una qualche forma di sincero umanesimo in teatro, lo dobbiamo a interpreti come Cristina, che rende il corpo la sua anima più diretta, più immediata. Mentre il pianista disegna suggestivi paesaggi sonori che ti portano via, ti fanno salire in carrozza, e ti fanno scorrere, nota dopo nota, uno spartito fortemente emotivo. Interpreta con la stessa generosità dell’attrice; anzi, nasce un rilancio certamente virtuoso, una sfida a quanto cuore sia possibile mettere su un tasto di piano, o nel fonema di una battuta. Non esiste più un tempo oggettivo, un meccanico scorrere dei secondi, ma c’è il tempo del viaggio, che si dilata o si stringe a seconda dell’umore.
Proprio come una fisarmonica, o i cieli d’Irlanda, si apre e si chiude, a seconda del prevalere dei sentimenti, dei moti dell’anima del momento. E certe battute sono veri e propri fraseggi, improvvisazioni jazz, scale che si impennano veloci, fino a darti le vertigini, e ti portano esattamente lì, su quella parola in cui si deve trovare requie. E’ stata certamente una felice intuizione, quella dell’attrice, di dedicare uno spettacolo al treno, legandolo a quella sensazione che anche il più scafato pendolare prova sempre: quando, pur stando fermi, ci si comincia a spostare. Ecco, Cristina riesce proprio nello stesso miracolo, e la sensazione dello spettatore è quella stessa del viaggiatore, muoversi pur stando fermi. Si ha l’impressione di spostarsi insieme al racconto, e che non importi quale sia l’inizio o la fine, ma solo il ritmo di quel viaggio: un irresistibile boogie woogie.
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