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Euripide

Le Troiane – Recensione teatro

in Teatro
Immagine dello spettacolo Le Troiane

Nell’ambito della rassegna teatrale 2023/2024 del Teatro di San Giuseppe di Rovello Porro vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Le Troiane, a cura di Nuove Prospettive APS. Alberto Mancioppi è il regista ed insieme il dramaturg che ha creato il testo, liberamente tratto dal lavoro di Euripide. Con Stefania Acquati, Deborah Caporale, Laura Carroccio, Mariano Di Rago. Maria Grazia Esposito, Francesco Ingrosso, Giorgia Meroni, Antonio Santoro, Maria Rosa Stercoli, Rosa Vitiello. L’aiuto regia è curata da Laura Carroccio.

Lo psicologo Hillman affermava che gli dèi sono diventati malattie, fumo sublimato del tabacco delle nevrosi, e in questo spettacolo, nella felice intuizione registica, diventano personaggi del varietà, cabarettistiche figure tragicomiche che giocano con il mondo, come il Chaplin de Il grande dittatore. Poseidone è un personaggio felliniano; un volto azzimato, un sigaro, un gioco di magia, un sorriso astratto e gentile da mimo innamorato di un invisibile fiore, sono il suo spettacolo d’arte varia di un dio innamorato perdutamente degli spettatori. Mentre Atena diventa una funerea Mercoledì Addams indispettita dai greci, vittima di violenti, accesissimi, sentimenti di desiderio di vendetta. Se i supereroi di Stan Lee dovevano avere, per geniale legge di contrappasso, super-problemi, questi Numi ne hanno ancora di più. Il mondo, copernicamente, si rovescia, ed il cielo olimpico si è ridotto ad una stralunata, minimale, compagnia di avanspettacolo. La polvere di stelle ci mette un attimo a diventare polvere di palcoscenico.

Ecco, infatti, che la tragedia è proprio lì, a meno di un passo. Proprio come Aristotele l’aveva decifrata, con un potenziale catartico altissimo, con l’universalità di una poesia che attraversa i secoli. Non è un caso che la poetessa Alda Merini abbia individuato, in un’immagine potente di questa tragedia euripidea, il sentimento in grado di generare la forza gravitazionale irresistibile, tonante, dei versi più alti: “una madre, Andromaca, a cui viene sottratto un bambino, Astianatte”. Si tratta di un dolore lancinante, senza limiti, che nessuna morfina del linguaggio è in grado di curare. La verità è l’urlo, lo strazio, il luogo non luogo in cui la parola si sveste di se stessa, entra in corto circuito con il proprio significare qualcosa. La vera divinità, conquistata a un prezzo troppo alto, ce la portano queste donne, vittima di una guerra di cui devono subire tutte le conseguenze.

Immagine dello spettacolo Le Troiane

Sono eterne, come eterno è il loro dolore, che, di conflitto in conflitto, ferisce la carne dei secoli. Il rigirarsi, i gesti apotropaici, l’impossibile preghiera, le braccia alzate, diventano la più sincera calligrafia di esistenze femminili schiacciate dalla violenza. Ecuba porta su di sé tutta la dignità ferita che non muore, tutta la fatica di essere nonostante tutto, la devastante sofferenza di una vita che continua a perdere terreno; e non le rimane altro che occupare il proprio spazio rimasto con una fiera verticalità. Si piega, si contorce come le rane galvaniche, viene parlata dalle sue parole, mentre il corpo, ed insieme i silenzi, gli atti mancati fonetici di freudiana memoria, fanno sentire tutta la verità di un inconscio che non è più quello dell’interprete, e nemmeno del personaggio: è quello collettivo di tutti noi, che vorrebbe che ogni fonema diventasse una dura pietra da lanciare.

Cassandra si ribella, prima di tutto, alla monumentalità della parola; si scrolla di dosso tutta, ma proprio tutta, la polvere fonetica, e agisce, in equilibrio da funambolo, sul filo sottilissimo della follia. Vede oltre il presente, oltre sé, oltre lo spazio scenico, ed oltre la platea. E la percezione visiva è fatalmente più veloce delle parole che la possono raccontare; perciò deve correre, correre maledettamente, questa fanciulla, per star dietro alle sue visioni, per fare parola del divino che è in lei, frainteso come pazzia. Porta su di sé, sulle proprie gambe, il rubro colore della violenza, del femminile eternamente violato, del fiore umiliato e calpestato che, ancora, riprende tutta la forza del suo colore e del profumo, malgrado il suo essere stato strappato e schiacciato. Andromaca soffre, o meglio, giocando tragicamente con le parole, s’offre al dolore più grande e più indicibile. In questo caso, le parole non possono che rarefarsi.

Immagine dello spettacolo Le Troiane

Diventano spinose, fanno sanguinare idealmente la bocca; la laringe si contrae, si squarcia, ogni volta che genera un suono. E’ la madre amputata nel suo più stretto vincolo affettivo, presente in ogni conflitto, che ci sfila davanti agli occhi nel racconto per immagini dell’ennesimo speciale televisivo. Non ci sono parole da aggiungere perché, in questo caso, vince nettamente l’insensata violenza della guerra: gioco, set, partita. Mentre Elena si gioca le sue ultime carte di seduzione con un Menelao nascosto dietro degli occhiali da sole, per cercare di regalare, al mito della sua militaresca dittatura, come canterebbe Battiato, del “sintomatico mistero”. Ormai, il meccanismo della guerra e della post guerra vive di vita propria, si dà la carica da solo; e persino Elena perde la sua centralità. E’ una memoria, una traccia, un dato storico: combatte, perciò, si agita perché le sia riconosciuta la sua forma vivente, la sua corporalità.

Ma finisce triturata dalle asciutte, aride, taglienti parole di un coniuge che, ormai, sembra provare maggiore piacere erotico nel gioco sadico della guerra. Taltibio mangia rumorosamente, potrebbe essere il mister Hyde del sergente Garcia, con la goffa caporaleschità totoiana, di un uomo qualunque con un grado sulle spalle. Sancho Panza ha smesso di seguire l’idealità donchisciottesca, e preferisce tirare a campare nel gioco dei potenti; tanto, ci sarà sempre una razione in più per lui, e si potrà sempre fare un buco in più al suo cinturone. Il coro, concentrato, essenzializzato in due interpreti, cerca di contrappuntare il dolore di Andromaca e delle altre donne della tragedia. Sta un passo indietro, con dignitosa umiltà; abbraccia con le parole, ma lo fa piano, per paura di fare male. In fondo, le Troiane sono il pianto di un bambino “mai nato”, o meglio “mai cresciuto, mai vissuto veramente”. Signori, toglietevi il cappello, perché questa è vera poesia tragica.

Immagine dello spettacolo Le Troiane

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