La carta gialla – Recensione Teatro
Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La carta gialla, piccola storia di una donna in trappola. Il lavoro teatrale è liberamente tratto da The Yellow Paper di Charoltte Perkins Gilman. Di e con Lisa Gino.
Prima di tutto arrivano gli occhi, due biglie screziate d’azzurro, che, come spilli, bucano lo spazio tra la protagonista e il pubblico, e ti entrano dentro, scavandoti la carne e l’anima, per trovarci un cantuccio e rimanere lì. Non è l’attrice ad avere lo sguardo; piuttosto, è lo sguardo stesso a possederla. Si tratta di un rito sciamanico, ancestrale, in cui la sacerdotessa diventa un ineffabile altro, profumando di una metafisica densa come la luce che la illumina. E poi arriva la voce, parole precise che si infilano, al pari di un ago ipodermico, nel nostro sistema circolatorio. Hanno qualcosa di decisamente mesmerizzante, prendono vita propria; sono i personaggi che affollano questa storia, sedie di ioneschiana memoria in grado di muoversi da sole. L’ideale J’accuse, lanciato dal racconto della scrittrice Charlotte Perkins Gilman contro il metodo curativo offerto dal dottor Mitchell per la depressione post-partum, ovvero la rest cure, il riposo assoluto, funziona meravigliosamente in questa versione scenica.
Un po’ come accade nei sogni – e ricorda, in un suo saggio, Schopenhauer -, quando si interrompe il flusso di informazioni dal sensorio alla mente, si crea una corrente opposta, dove è la psiche stessa a crearsi quegli stimoli e quelle percezioni di cui ha un perenne appetito. La cura diventa tossica, peggiore del male che vorrebbe affrontare, portando all’isolamento totale, ad una forzata staticità, ad una mutilazione della socialità, un’infibulazione del contatto con il mondo. Su di un divano chiaro, fatalmente psicanalitico, in una tinta che ci ricorda la tortura del prigioniero costretto nel monocromatismo lattescente, comincia, l’ombra mentale, a diventare cosa salda, e proiettarsi su di una simbolica tappezzeria gialla rovinata, strappata; utero accogliente per tutto il nero di quest’anima, che avrebbe sogno di mettere al mondo il mondo, invece di essere costretta a trattenerlo in sé, a trasformarlo in un complesso parto podalico.
Non c’è battuta, non c’è fonema che non riesca a catturare, a diventare un black hole in grado di catturare tutta la luce dell’interesse e dell’attenzione della platea. Si assiste ad una particolarissima transustanziazione, in cui il linguaggio è corpo già ferito, pulsante, con tutte le contorsioni del proprio, trattenuto, dolore. Solo il simbolo, l’incubo del giallo della tappezzeria, è in grado di diventare la comunicazione della sofferenza interiore e, insieme, della cognizione. Non capitava da tempo di assistere ad uno spettacolo dove l’Altro lacaniano, l’inconscio freudiano, sia così vicino da poterne sentire il respiro. L’impressione non è quella del solito rito teatrale, in cui, da una parte, ci sia l’interprete e, dall’altra, lo spettatore; piuttosto, la sottile nebbia che le parole suscitano si alimenta, e si amplifica, con quella che sorge, di rimando, dalla platea. Ѐ la realtà incoglibile della psicologia del profondo, che non ha parole, ma può parlare attraverso le ferite della comunicazione. Si manifesta da se medesima, attimo dopo attimo, gesto dopo gesto. Quello che possiamo registrare, verbalizzare disperatamente nel tentativo, se non di cogliere questo, almeno di restituirne l’aroma, è una sensazione che, dal petto, va giù nel ventre, nell’ombelico di tutti gli stati d’animo. Attraverso una specie di ipnoterapia ericksoniana, dove l’ipnosi curativa prende la forma di una conversazione, e di un linguaggio suadente, poetico, la platea tutta entra in uno stato di trance, dove gli stati di lieve alterazione della coscienza, felicemente, danzano insieme a quelli più robustamente espressi dalla protagonista. Giù, giù, nella tana del Bianconiglio, nel profondo della tappezzeria, il mondo perde le sue regole, e le visioni diventano un corteo di baccanti che propongono, a questa novella Arianna, almeno una possibilità di fuga ed emancipazione. In un serratissimo flusso di coscienza ci si ritrova, indubbiamente, in uno spazio, più che fisico, mentale.
In questa particolarissima camera oscura, diventa possibile sviluppare le immagini della più perduta interiorità, le fotografie dell’invisibile, delle incolmabili fenditure nella tela dello spirito. Le luci cangianti fanno da contrappeso alla capacità di questa animula di prendere, letteralmente, il volo dal divano, dove si deve inventare, nelle parole, la vitalità e la dinamicità che le sono precluse. La sfida non era delle più facili, ma è stata, decisamente, vinta con successo, dimostrando, parafrasando, e, financo, rovesciando, la famosa battuta di Amleto: ci sono più cose nelle parole, che in cielo e in terra. Lisa Gino sa utilizzare al meglio i fonemi come calde coperte di Linus, in grado di soffocare, o, anche, di riprodurre il bambino, e, con esso, la vita, negati entrambi. Danza verbalmente con piede leggero, ha un eloquio “coreutico” che gira senza vertigine, come un derviscio. Al posto della laringe, ha due mani.
Questi misteri tattili che abitano l’attrice, quasi dotati di una vita propria, creano, plasmano, limano, miniano con un pennello sottile ogni dettaglio, ogni singola intenzione, anche quelle maggiormente celate nella parte più nera e ascosa della caverna interiore. Col musetto attento, penetrante e stupito di una donnola, ella comunica, con tutti gli spettatori, già con il suo stesso esserci, con gli sguardi e movimenti del capo. Avverte – e ci permette, letteralmente, di vedere – il pericolo di un nero, anzi di un’aurea inquietudine che avanza, ed è umido gelo in grado di entrare nelle ossa. Dipingi di giallo, e non di nero, una scena, e otterrai, caro Jagger, un’anima assetata di vita, quanto un vampiro di sangue. Poe aveva il suo cuore rivelatore; qui, invece, abbiamo un colore che inquieta la protagonista, con il sottile insinuarsi di un mostro ereditato dall’infanzia, che ci induce a tenere i piedi ben al di qua del bordo del letto.
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