Vecchi tempi – Recensione teatrale
Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Vecchi tempi. La penna di Pinter firma il testo, e si sente. Il regista è Claudio Morganti. Gli interpreti sono Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Annig Raimondi. La produzione di questo lavoro teatrale è curata da PACTA. dei Teatri.
Da un punto esterno alla retta dovrebbe passare una, e una sola, retta parallela; invece, ecco che la possibilità di geometrie non euclidee inventa soluzioni differenti. Pinter è un po’ così: la sua drammaturgia piega lo spazio, trova il modo di non scegliere il percorso più breve, ti fa fare un giro del mondo di cui vale sempre la pena, e, una volta giunto al traguardo, ti ritrovi meravigliosamente al punto di partenza, come su un nastro di Moebius. E poi, ci sono le parole di Pinter, e qui si apre un’altra sfida, ancor più affascinante. I dialoghi di questo lavoro teatrale sono la partita a tennis perfetta, il momento in cui la palla schiocca, con un rumore secco e pulito, sulle corde della racchetta, per poi andare a battere lungo la linea del campo, e l’altro giocatore non ci arriverebbe neanche se avesse un altro paio di gambe e di polmoni a sostenerlo.
E’ una partita a carambola, in cui, nelle pause, il giocatore-personaggio studia il colpo, e poi la biglia batte su una sponda, sull’altra, su un’altra ancora, colpendo la biglia-bersaglio nell’unico modo possibile per farla finire in buca. Tre personaggi, un marito, una moglie e un’amica, sciolgono il principio di identità di Aristotele, con la stessa velocità con cui si scioglie il ghiaccio dei loro numerosi drink. A non è più uguale ad A: è uguale a B, a C e ad altre lettere nascoste nella memoria. Qui la parola regna sovrana, è un’ammaliante dark lady di un fumoso film noir, che potrebbe piantarti un bacio e, un istante dopo, una pallottola nel cranio. Ecco, questo testo è un proiettile blindatissimo, full metal jacket che scuote la platea, che penetra fino al cuore e anche oltre. Le madeleines della memoria hanno il sapore molto dry del gin.
A un certo punto, inoltre, non importa più che qualcosa sia effettivamente accaduto, ma soltanto che accada ora, in un susseguirsi dì istanti affilati quanto il rasoio di Kurtz. I fonemi sono il campo di una battaglia senza esclusione di colpi; strato dopo strato, appare la verità della cipolla del Gynt, quell’impossibile centro di gravità interiore, che ha un sapore di verdura guasta. I tre personaggi distillano un teatro in purezza, una meravigliosa droga non tagliata, che fa bene allo spirito. Questo Pinter è il ghiaccio nella zona più profonda di questo inferno interiore, in cui la foresta di Birnam rimane ferma lì dov’è, e Macbeth e consorte, sensibili al richiamo del fascino discreto della borghesia, si giocano l’ultimo dio nei dadi dei cubetti di ghiaccio. Giocano, e chissà che non ci sia del sangue, dietro il fango dei loro segreti.
Giocano con il tempo e sono giocati dalle parole, che li guidano, come un parassita invade e governa il corpo di una mantide. Claudio Morganti offre una regia di precisione, una geometria terribilmente affascinante disegnata da una luce che si spezza, che spilla i visi come un giocatore di poker spilla le sue parti; mentre, sul fondo, un lungo rettangolo di luce cangiante è la cartina di tornasole in grado di misurare tutta la causticità di queste psicologie. Lavora di cesello sulle laringi, e tutti i dialoghi hanno la bellezza senza fiato della Saliera di Benvenuto Cellini. Ogni battuta è un colpo che si fa sempre più preciso, più letale, è una rasoiata sull’anima, propria e dell’ascoltatore. Ecco il teatro nudo, con il corpo offerto per l’eterna alleanza sul pubblico, che fa deragliare il logos a poco a poco; ma, centimetro dopo centimetro, senza accorgersene, ci si ritrova nel cerchio di Dioniso.
Maria Eugenia D’Aquino è una moglie che, progressivamente, rende il suo sorriso, dolce e timido, letale quanto il pendolo di Poe, mentre il pozzo potrà sempre essere riempito con altro liquore nel bicchiere. I suoi silenzi sono monologhi micidiali, e la sua laringe suona un jazz sincopato. Riccardo Magherini jekylleggia parola dopo parola, ha nella gola dei meravigliosi artigli retrattili, pronti a strappare lembi di carne dell’anima; ma, quando fa tintinnare il ghiaccio, ti sembra di sentire l’attesa della lama della ghigliottina dalla parte del condannato. E la poltrona su cui si siede sembra portare le vestigia, l’eco delle sue tempeste emotive. Annig Raimondi ha una voce che viene dal dentro del dentro, da un cantuccio dell’anima dove Tom Waits suona un blues struggente. Recitano i suoi passi, i suoi piedi, i suoi tacchi, che non hanno nulla da invidiare ai coturni della tragedia. Si mette lì, sul bordo dell’ultimo precipizio, e sembra più spaventato l’abisso nel vederla, che lei nell’osservarlo.
Gli interpreti fanno uno stupendo gioco di squadra, dove ognuno si lascia recitare dall’altro, si lascia arricchire dall’altro. Un gioco degno del miglior Brasile calcistico, dove la palla passa tra i piedi di un giocatore all’altro, e pare sempre stregata. Tutte le dosi sono giuste, non c’è parola che manchi il suo bersaglio. Ci si muove nel labirinto dei ricordi con la disperazione di Nicholson in Shining. Il dubbio è sempre lì, dietro l’angolo, pronto a giocare a nascondino con ogni possibile certezza. Un eccezionale gioco al massacro, che si compie un fonema alla volta. Si scava e si scava, ancora e ancora, senza mai accontentarsi; e, a furia di bicchieri, ci si accorge di quanto sia profonda la tana del Bianconiglio. Pinter insegna che non c’è inferno così abissale da non poter nascondere un doppiofondo. De Sade ha trovato delle parole, terribilmente affilate, per torturare l’anima. Gli applausi finali sono meritatissimi, per questo Grand Guignol psichico ed emotivo.
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