SYLVIA P 1932 – 1963
Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Sylvia P 1932 – 1963, scritto e interpretato da Antonella Voltan. La regia è curata da Lara Franceschetti.
La cognizione delle parole regala la stessa stupefazione percepita quando ci si ritrova, per la prima volta, a osservare un fiore: una forma che sembra essere fatta per dare modo di sentire quello che l’intelletto non può comprendere, quando si confronta con l’idea di bellezza. Questo spettacolo, che vuole omaggiare, come meglio non si potrebbe fare, la poetessa Sylvia Plath, ci mostra queste divinissime cose invisibili, ossia le parole, e ce le rende in forma di diamanti purissimi. L’interprete diventa una sorta di theremin in grado di produrre, con vibrazioni elettromagnetiche, fonemi che risuonano giù, giù, nel cuore e, insieme, nella mente. Perché, in questa poesia che unisce vita e letteratura, il muscolo cardiaco è tutt’uno con il pensiero; in equilibrio omeostatico, come l’equilibrista sulla corda, essi viaggiano di sillaba in sillaba, lasciando il pubblico a bocca aperta, nella paura che si possa precipitare nell’abisso della realtà prosaica.
L’attrice (e autrice) Antonella Voltan ha certi sorrisi, poi, che ti spaccano il cuore. Squarci necessari, riflessi pavloviani di un lirismo che crea tagli di luce sulla tela dell’anima, meglio di Fontana. Ecco un’altra, maledettamente necessaria, Antigone: ha dialoghi con l’Assoluto che non tutti possono – o vogliono – comprendere, non accetta compromessi. Trabocca di entusiasmo, nel senso originario, etimologico del termine; ovvero, ha un dio che le urge dentro, e la cui ineffabile lingua ella deve rendere, a costo della propria vita, in forma di poesia. Aggiusta il mondo, Sylvia, e lo fa con la pazienza del ragno che aggiusta una tela: lui con la sua bava, lei con le parole ricercate, quelle con cui il buon vecchio Flaubert poteva perdere pomeriggi, passeggiando nella sua verde Normandia. L’America più spregiudicata, consumista e ostinatamente materialista è salvata da questo tipo di creature, anime fatte di una seta sottilissima, che rischia di rovinarsi solo ad essere guardata.
Seta che non si distingue più dal corpo fisico, e da quello invisibile, di chi la esprime. Posseduta da Apollo, questa Pizia oracola e trasumana verso l’indicibile, quella zona che sta poco prima, e poco dopo, ogni singolo fonema. Non si limita a pronunciare parole; piuttosto, sono queste ultime a pronunciarla, a plasmarla, attraverso le loro labbra, la loro lingua, la loro invisibile laringe. E poi viene la gioia, la volontà di abbandonarsi alla propria vocazione ad essere, nel senso più pieno del termine. Avete presente certe pennellate generose, grumose, nell’eterno vortice danzante che le ha fatte nascere dalla propria impronta? Ecco, in questo lavoro teatrale ci si ricorda che Sylvia era così. Ha vissuto il mondo una, dieci, mille volte, per tutti noi, per offrircelo nella forma più pura: nel silenzio di un Buddha che mostra un fiore di Loto come tacita, essenziale forma di insegnamento.
Ne pagherà, certo, un prezzo altissimo; ma lo spettacolo evita, e fa bene, di schiacciare la biografia della poetessa sulla depressione, sul suicidio finale. Ci mostra, piuttosto, la fenomenologia, la creazione in progress di una vocazione a fare poesia. Ha seguito il suo daimon,Sylvia, fino alle estreme conseguenze. Ha costruito la sua teologia fatta di preziosissime parole, ha provato l’estasi di Santa Teresa colpita da un dardo di fuoco. Per la fortuna di tutti noi, al posto di abbandonarsi ad una scelta compromissoria, ha preferito dire il sì della Molly Bloom di Joyce. Ha chiuso gli occhi ed ha accolto nel suo ventre tutto l’essere che ci stava, anche quello che, apparentemente, non trovava posto. Parole, inevitabilmente, sia biografiche che poetiche, si uniscono, formula alchemica perfettamente riuscita, in questa drammaturgia; e sono protagoniste assolute, in grado di far compiere alla platea un viaggio al termine della notte.
Si esplorano i paesaggi dell’anima, rivolgendosi a un udito tutto interiore, a un senso ulteriore, nascosto per gran parte del tempo, ma di nuovo attivo, se richiamato dalla musica giusta. E’ un piacere voltarsi e osservare il pubblico in piena risonanza con l’attrice, preso da un incantesimo capace di far vedere gli angeli sbattere le loro ali, fatte di piume e di lettere, in un salotto in Piazza della Repubblica, a Milano. E, infine, si riescono a riveder le stelle. L’intuizione potente di far sì che tutto questo provochi un fatale sorriso, gentile ed accogliente, prima di tutto nell’interprete, con la naturalità di mani che lavorano impasto di acqua e farina, è il valore aggiunto di questo spettacolo. L’anima è questo: un inarcarsi delle labbra nella forma di una gioia sottile che accoglie, con grazia coreutica, le parole necessarie perché il mondo sia riscattato da se stesso.
Si sente la disperata necessità di lavori teatrali come questo; di una tale volontà di far conoscere una poetessa, riportandone fedelmente tutti i movimenti dell’anima. Scoprire un essere umano, ma scoprirlo davvero, è sempre un momento di profonda commozione. Equivale al poter vivere, al proprio interno, quello che, in questo caso, la poetessa è per se stessa, dal di dentro. Abbattendo la barriera, apparentemente invalicabile, dell’apparire, è la vita stessa che si mostra: la vita cosciente, fatta di cuore e pensiero, che parla con spontaneità, al di là dei riti verbali, della convenzioni marionettistiche. Tutto è esattamente come dovrebbe essere, vergine persino del nome. Mentre scrivo, mi viene in mente che questa pièce è, anche e soprattutto, un omaggio alla poesia, a quel potere ineffabile che fa profumare ancora di divino le parole, dando loro l’inconfondibile aroma di un’anima distillata, di un elisir dei diamanti più puri, nella loro sublimazione grafica e fonetica.
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