Le donne di Bennet – Recensione Teatro
Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Le donne di Bennet. La drammaturgia è la regia sono curate da Marisa Miritello. Il testo è interpretato da Anna Nicoli, Maria Coduri e Rosanna Daolio.
Una frase del Talmud ci ricorda che Dio conta le lacrime delle donne, ma è altrettanto vero che, ancor di più, contabilizza le risate; anzi, queste rappresentano una robusta voce positiva del bilancio. Quando la comicità si declina al femminile, avviene una sorta di miracolo. Sarà per la potenzialità generativa della donna, che finisce, per scriverla alla Vegetti Finzi, per mettere al mondo il mondo; e sarà anche per quel modo, tutto unico e peculiare, di vedere le cose da un altro punto di vista, obliquo. Se Brecht ci invita a sederci dalla parte del torto perché non ci sono altri posti a sedere, la donna preferisce inventarsene uno, fosse anche quello di un furgoncino giallo, adibito a casa, di una delle protagoniste di questa pièce. D’altronde, se non si può uscire dal tunnel, si può sempre arredarlo, anche se, in questo caso, il tunnel diventa un autoveicolo paglierino.
Certo, una parte considerevole del miracolo la compie la penna caustica, e irresistibilmente comica, di Alan Bennett, da cui sono ricavate le tre figure presenti nello spettacolo. Questo autore prende le parole e le maneggia, con l’abilità di un prestigiatore con le carte. E ha la capacità, sempre più rara e, per questo, preziosa, di costruire dialoghi solidi, più che verosimili: reali, come certi faticosi lunedì mattina invernali, con frasi che si sgranano facilmente, come un rosario nelle mani di una pia, o come una lunga sequenza di teoremi che si deducono, fatalmente, l’uno dall’altro. Marisa Miritello, prima di ogni altra cosa, compie un lavoro di alta sartoria drammaturgica e raduna, nella stessa unità aristotelica di spazio e tempo, questi tre personaggi, facendoli felicemente interagire tra loro e moltiplicando, così, l’effetto della comicità. La donna anziana, col suo furgoncino, sogna, da dietro il sipario, i suoi 10 minuti di celebrità warholiana.
Appende, oltre ai suoi pannoloni riciclati, aforismi giocati sul paradosso, massime zen che si sono sintonizzate alle latitudini di una compostezza very british. Col suo megafono grassetta le parole nel quotidiano ripetersi di giornate molto borghesi, costruendo, tra Jannacci e Adorno, la sua roba minima (moralia); diventa la voce, volutamente dissonante, del coro dei luoghi comuni del si dice, si pensa, ci si spersonalizza. Diventa la coscienza critica, il ritratto di una Doriana Gray, in piena ricerca montypythonesca del senso della vita, delle due donne con cui si confronta. Una è la moglie del diacono: inamidata nei paramenti sacri di una vita che le sta evidentemente stretta, trova soddisfazione, come un’ Arianna britannica, in Bacco e nel fascino discreto delle lenticchie, e, soprattutto, nel bell’indiano che le vende. Deneuveggia come bella, o meglio “brilla di giorno”, in cerca del suo fantasma della libertà.
Mentre l’altra, che simula per lavoro le malattie, meglio di un molieriano Argante fa, dell’immaginarietà delle sue patologie, una professione, salvo imbattersi in impreviste anatomie extra-ospedaliere. Alla fine, spendono i giorni della loro vita in una lineare semplicità che batte, per forza e timbro, anche la più classica delle tragedie. Questo tempo , la regista lo fa scorrere con gli stacchi musicali, con il ritorno ciclico delle abitudini, delle poche virtù e dei molti vizi dei personaggi. Si tiene conto, e si fa tesoro della lezione beckettiana: l’abitudine è un grande sordina, il Lexotan esistenziale contro le angosce e le paure della vita. Questa diventa la forza del testo, la sostanza di una comicità che prende la sua energia e la sua vividezza dal quotidiano, da quel sottile teatro dell’assurdo vivo in certi dialoghi, che sembrano usciti dalle units di un libro per imparare la lingua inglese.
Non a caso, Ionesco prese ispirazione, per il suo testo La cantatrice calva,proprio da un libro di dialoghi per imparare velocemente la lingua inglese. Rosanna Daolio è la donna del furgoncino: perfettamente a suo agio nel ruolo, lo veste alla perfezione. Costruisce fonemi riflessivi, volutamente sottolineati, trovando un certo quale straniamento brechtiano. Riesce a dare l’impressione di essere come uno di quei marziani a Roma di Flaiano, qui in trasferta oltremanica. Come una dottoressa Stranamore, sulla sua carrozzella, si muove, come dea in machina, di scena in scena, alzandosi, di quando in quando, per danzare un contrappunto esistenziale. Maria Coduri è la moglie del diacono, con una vocina di testa, perfetta per il suo personaggio. Sembra di ascoltare il timbro, lieve e sospeso, della celesta nella Danza della Fata Confetto nello Schiaccianoci. Scivola lentamente, ma inesorabilmente, nello stordimento dionisiaco dello sherry e del vin santo.
Cerca di curare, in questo modo, i reumatismi dell’anima, più che quelli del corpo. Naturale, senza bollicine aggiunte, è lo stile della sua recitazione: un viso fonetico tenuto così com’è, senza che sia caricato di trucchi e modi enfatici. Marisa preferisce pizzicare, idealmente, le guance delle sue interpreti per dare loro una naturale nuance, piuttosto che utilizzare un pesante fard da laringi bronzate. Anna Nicoli, la malata immaginaria per vocazione e per professione, porta sulla scena un sorriso, un’amorevole gentilezza, che screziano di note preziose la sua recitazione. Ridono, quegli occhi, ma di un riso cordiale, affabile. Vederla recitare fa comprendere perché in altre lingue, ad esempio l’inglese, recitare si traduca con un’espressione che indica primariamente il gioco, to play. E’ un gioco serio e, insieme, leggero come una piuma. Tre donne intorno al cuor ci son venute, irresistibilmente piacevoli per la platea; tre donne che si meritano tutti i nostri applausi.
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