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Portiamo il teatro a casa tua

Le donne di Bennet – Recensione Teatro

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immagine dello spettacolo le donne di Bennet

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Le donne di Bennet. La drammaturgia è la regia sono curate da Marisa Miritello. Il testo è interpretato da Anna Nicoli, Maria Coduri e Rosanna Daolio.

Una frase del Talmud ci ricorda che Dio conta le lacrime delle donne, ma è altrettanto vero che, ancor di più, contabilizza le risate; anzi, queste rappresentano una robusta voce positiva del bilancio. Quando la comicità si declina al femminile, avviene una sorta di miracolo. Sarà per la potenzialità generativa della donna, che finisce, per scriverla alla Vegetti Finzi, per mettere al mondo il mondo; e sarà anche per quel modo, tutto unico e peculiare, di vedere le cose da un altro punto di vista, obliquo. Se Brecht ci invita a sederci dalla parte del torto perché non ci  sono altri posti a sedere, la donna preferisce inventarsene uno, fosse anche quello di un furgoncino giallo, adibito a casa, di una  delle protagoniste di questa pièce. D’altronde, se non si può uscire dal tunnel, si può sempre arredarlo, anche se, in questo caso, il tunnel diventa un autoveicolo paglierino.

Certo, una parte considerevole del miracolo la compie la penna caustica, e irresistibilmente comica, di Alan Bennett, da cui sono ricavate le tre figure presenti nello spettacolo. Questo autore prende le parole e le maneggia, con l’abilità di un prestigiatore con le carte. E ha la capacità, sempre più rara e, per questo, preziosa, di costruire dialoghi solidi, più che verosimili: reali, come certi faticosi lunedì mattina invernali, con frasi che si sgranano facilmente, come un rosario nelle mani di una pia, o come una lunga sequenza di teoremi che si deducono, fatalmente, l’uno dall’altro. Marisa Miritello, prima di ogni altra cosa, compie un lavoro di alta sartoria drammaturgica e raduna, nella stessa unità aristotelica di spazio e tempo, questi tre personaggi, facendoli felicemente interagire tra loro e moltiplicando, così, l’effetto della comicità. La donna anziana, col suo furgoncino, sogna, da dietro il sipario, i suoi 10 minuti di celebrità warholiana.  

Immagine dello spettacolo Le donne di Bennet

Appende, oltre ai suoi pannoloni riciclati, aforismi giocati sul paradosso, massime zen che si sono sintonizzate alle latitudini di una compostezza very british. Col suo megafono grassetta le parole nel quotidiano ripetersi di giornate molto borghesi, costruendo, tra Jannacci e Adorno, la sua roba minima (moralia); diventa la voce, volutamente dissonante, del coro dei luoghi comuni del si dice, si pensa, ci si spersonalizza. Diventa la coscienza critica, il ritratto di una Doriana Gray, in piena ricerca montypythonesca del senso della vita,  delle due donne con cui si confronta. Una è la moglie del diacono: inamidata nei paramenti sacri di una vita che le sta evidentemente stretta, trova soddisfazione, come un’ Arianna britannica, in Bacco e nel fascino discreto delle lenticchie, e, soprattutto, nel bell’indiano che le vende. Deneuveggia come bella, o meglio “brilla di giorno”, in cerca del suo fantasma della libertà.

Mentre l’altra, che simula per lavoro le malattie, meglio di un molieriano Argante fa, dell’immaginarietà delle sue patologie, una professione, salvo imbattersi in impreviste anatomie extra-ospedaliere. Alla fine, spendono i giorni della loro vita in una lineare semplicità che batte, per forza e timbro, anche la più classica delle tragedie. Questo tempo , la regista lo fa scorrere con gli stacchi musicali, con il ritorno ciclico delle abitudini, delle poche virtù e dei molti vizi dei personaggi. Si tiene conto, e si fa tesoro della lezione beckettiana: l’abitudine è un grande sordina, il Lexotan esistenziale contro le angosce e le paure della vita. Questa diventa la forza del testo, la sostanza di una comicità che prende la sua energia e la sua vividezza dal quotidiano, da quel sottile teatro dell’assurdo vivo in certi dialoghi, che sembrano usciti dalle units di un libro per imparare la lingua inglese.

Immagine dello spettacolo Le donne di Bennet

Non a caso, Ionesco prese ispirazione, per il suo testo La cantatrice calva,proprio da un libro di dialoghi per imparare velocemente la lingua  inglese. Rosanna Daolio è la donna del furgoncino: perfettamente a suo agio nel ruolo, lo veste alla perfezione. Costruisce fonemi riflessivi, volutamente sottolineati, trovando un certo quale straniamento brechtiano. Riesce a dare l’impressione di essere come uno di quei marziani a Roma di Flaiano, qui in trasferta oltremanica. Come una dottoressa Stranamore, sulla sua carrozzella, si muove, come dea in machina, di scena in scena, alzandosi, di quando in quando, per danzare un contrappunto esistenziale. Maria Coduri è la moglie del diacono, con una vocina di testa, perfetta per il suo personaggio. Sembra di ascoltare il timbro, lieve e sospeso, della celesta nella Danza della Fata Confetto nello Schiaccianoci. Scivola lentamente, ma inesorabilmente, nello stordimento dionisiaco dello sherry e del vin santo.

Cerca di curare, in questo modo, i reumatismi dell’anima, più che quelli del corpo. Naturale, senza bollicine aggiunte, è lo stile della sua recitazione: un viso fonetico tenuto così com’è, senza che sia caricato di trucchi e modi enfatici. Marisa preferisce pizzicare, idealmente, le guance  delle sue interpreti per dare loro una naturale nuance, piuttosto che utilizzare un pesante fard da laringi bronzate. Anna Nicoli, la malata immaginaria per vocazione e per professione, porta sulla scena un sorriso, un’amorevole gentilezza, che screziano di note preziose la sua recitazione. Ridono, quegli occhi, ma di un riso cordiale, affabile. Vederla recitare fa comprendere perché in altre lingue, ad esempio l’inglese, recitare si traduca con un’espressione che indica primariamente il gioco, to play. E’ un gioco serio e, insieme, leggero come una piuma. Tre donne intorno al cuor ci son venute, irresistibilmente piacevoli per la platea; tre donne che si meritano tutti i nostri applausi.

Rcensione dello spettacolo Le donne di Bennet

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Soli, con tutto – Recensione Teatro

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Immagine dello spettacolo Soli con tutto

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Soli con tutto, con Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi. Il testo è di Paolo Faroni, Elisabetta Misasi, e Massimo Canepa. La regia è firmata da Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi. Le scene e le luci sono curate da Massimo Canepa.

Un uomo e una donna che parlano sono il perfetto big bang teatrale, e che big bang: stiamo parlando della nascita di un universo scenico che ti esplode davanti, che ti sporca di emozioni e di vita. E’ uno scambio di due giocatori di ping pong, in cui ci si chiede come diavolo faccia, il giocatore che risponde, a rimandare la pallina dall’altra parte del tavolo; eppure, lo fa. Ci avete mai badato? Nei dialoghi che filano dritti dritti come un treno ad alta velocità, esatti come il taglio di bisturi del miglior chirurgo, c’è sempre l’odore di qualcosa di americano. Si sente il profumo di un caffè abbondante che ti tiene sveglio, e ti fa pulsare le vene delle tempie. Strasberg, Meisner, Stella Adler sono tutti lì, in quello scambio di parole, vero come certi schiaffi, che ti bruciano a lungo sulla guancia.

Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi prendono Strindberg, Bergman e la loro drammaturgia, li fanno salire su una Lamborghini e schiacciano pesantemente l’acceleratore, lasciando andare la frizione del tempo sospeso. Non hanno paura di Virginia Woolf, e delle litigate tra Burton e la Taylor: anzi, non hanno nulla da invidiare a quei match di pugilato verbale. Prendono spunto dalla famosa frase di Muhammad Alì pungi come un’ape, e vola come una farfalla. Partendo dal testo del russo americano Alex Gelman, raccontano l’orrore quotidiano della famiglia: non solo mostrano la polvere sotto il tappeto, ma la rendono così irresistibile da farci dimenticare il tappeto stesso. Allentare una cravatta diventa il gesto psicologico esatto, preciso, necessario, come una serie di sponde di una pallina da biliardo destinata, dopo quella passeggiata geometrica, ad andare lì dove dovrebbe andare. Fa piacere, davvero, accorgersi di tutto il lavoro di minuta, certosina costruzione di affiatamento che hanno saputo realizzare i due interpreti.

Immagine dello spettacolo Soli con tutto

La semplicità, e il lavoro di distillazione in purezza del dialogo, sono una conquista faticosa. I due si graffiano reciprocamente l’anima, se la accoltellano; uxoricidi della verbalità, assassini metafisici dell’anima del coniuge, rivisitano la massima cartesiana rendendola loquor ergo sum, parlo dunque sono. Ma la condizione perché l’esistenza scenica trovi la sua causa finale, la sua realizzazione piena, è una parola che diventi scontro, un’identità che, trovando la conferma di sé nello specchio dell’altro, lo voglia rompere. La lotta è senza quartiere, e sono ammessi tutti i colpi. Non c’è pace, né tregua, bensì uno stato di perpetua belligeranza che chiama in causa tutte le strategie: la guerra lampo, l’invasione, il bombardamento, le incursioni dietro le linee nemiche. Charlie, il nemico delle foreste del Vietnam, è il coniuge. Mentre il figlio, presenza/assenza, motore invisibile di questa vicenda, è la vittima sacrificale perfetta, l’agnello che svela i peccati del mondo familiare.

Si prendono a colpi di figlio in faccia, letteralmente, i due personaggi; lo usano come un’arma, lo rivendicano come un territorio proprio da militarizzare. Appare, perciò, dentro un salotto borghese, l’inferno, uno di quelli molto lontani dal modello dantesco. Qui non c’è un fondo, si continua a cadere, precipitare. E, come in certi cartoni animati, si finisce per arredare quella caduta, ricoprirla di un’impossibile normalità. La cosa più inquietante  è il fatto che questi due personaggi non siano poi così irreali, non rappresentino un orizzonte lontano. Incarnano, piuttosto, quel ritratto di Dorian Gray dei difetti interiori, un quadro che invecchia, si deturpa e porta i segni delle nostre colpe. I loro gesti sono i nostri gesti; i silenzi, le piccole e grandi nevrosi, le maschere, le verità nascoste ci calzano a pennello, come un vestito sartoriale fatto su misura.

Immagine dello spettacolo Soli con tutto

Frustrati, depressi, dolorosamente vitali, celebrano una Messa laica del quotidiano vivere, sbranandosi a vicenda. Paolo Faroni, letteralmente, si tuffa, fin dall’inizio, nel personaggio, lasciandosene permeare. Si ingolla generosi bicchieri di recitazione alla Mamet, ed è un venditore eccezionale, che sa conquistare il cliente. Ti incanta con le parole, te le fa agilmente muovere davanti, come una moneta tra le dita. Ma, al momento giusto, sa diventare un altro. Si fa parlare dalle parole, le lascia deragliare nelle intenzioni devianti, nel corto circuito di un inconscio che è proprio lì a due passi, dentro il bicchiere di superalcolico. Mostra, spillandola, al pari di un esperto giocatore, l’altra faccia della sua luna: ed è una faccia scomoda, da schiaffi, fragile più di un cristallo di Boemia, debole ed opportunista. Elisabetta Misasi restituisce colpo su colpo: è l’avversario ideale, è quello specchio su cui si fracassa la mano l’ubriaco Sheen, in Apocalypse Now.

E’ una cresciuta Alice nel paese delle dis- meraviglie, e sa, oh, se lo sa, quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Le sue parole bruciano come sigarette spente sulla pelle. Bastano certi sguardi per inchiodare e imprigionare la farfalla dell’anima del coniuge, trapassandola con lo spillo delle proprie considerazioni. Sacrifica anche lei, sull’ara della reziana divinità del massacro, la carne di suo marito. Certe intuizioni non possono che venire dal femminile, la cui natura può essere materna, o di una spietata Medea. Alcuni suoi silenzi, alcuni sovrappensieri sono stilettate che ti entrano nei polmoni, e ti tolgono la possibilità di gridare per chiedere aiuto. Come canta De Andrè: se tu penserai, se giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese, ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo.

Immagine dello spettacolo Soli con tutto

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Il Maestro e Margherita – Recensione Teatro

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immagine del Maestro e Margherita
Ph Maurizio Anderlini

All’interno della sinergia fra La tana degli artisti e Portiamo il teatro a casa tua vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Il Maestro e Margherita. La drammaturgia è ispirata all’omonimo romanzo di M. Bulgakov. La regia è curata da Mario Gonzalez. Gli interpreti sono Nicola D’Emidio e Chiara Sarcona.

Prima di tutto vengono gli occhi, due supernovae, lì lì per esplodere anima da un momento all’altro. Inizia così lo spettacolo, attratto da questa irresistibile forza gravitazionale, concentrato in un corpo che si fa tutto, moltiplicandosi, piegandosi, plasmandosi sotto le mani demiurgiche, invisibili del testo scenico. La scommessa è tra le più ardue: rendere un romanzo come Il Maestro e Margherita, ricco di colori, personaggi e comparse più di un infernale quadro di Bosch, o dell’Entrata di Cristo a Bruxelles di Ensor, attraverso una coppia, una sizigia composta da un’attrice e un attore. La scommessa non solo viene accettata, ma decisamente è vinta con l’unico espediente possibile, vale a dire un’energia atomica che farebbe esplodere, tutti insieme, 100 atolli di Bikini. Corre veloce questo spettacolo, corre con i piedi del campione mondiale centometrista Usain Bolt. Non ha nemmeno bisogno di tirare il fiato, perché, bontà sua, prende in prestito persino tutti i polmoni della platea, per respirare.

Sia l’attore che l’attrice offrono meravigliosi “sguardi in macchina”, abbattendo, a colpi di generosa interattività, la quarta parete. Non riuscirebbe a sbadigliare neppure un narcolettico, di fronte allo spettacolo di arte varia di questi due interpreti. Guardando, ascoltando questa pièce, anzi, vivendola dalla parte della platea, non si può non essere visitati da una nuova, necessaria, rinvigorita intuizione della commedia, della sua ragion d’essere. E’ tutto un valzer di sorrisi, di risate; una gioia della vita che trova la sua cerimonia, sacra e umanissima, sul palcoscenico. Il Komos, la radice della commedia, l’euforia, che accompagnava le antiche cerimonie per celebrare la fertilità della terra, e per estensione, il rinnovarsi di ogni forma di vita, torna a farsi sentire come canto libero e selvaggio, come forza motrice. Signore e signori, ecco nuovamente che la vita, in tutta la sua tridimensionalità percettiva, si esprime sul palcoscenico come unicum.

Immagine de Il Maestro e Margherita
Ph Maurizio Anderlini

Al pari del fiume di Eraclito, travolge felicemente, con immensa freschezza e irripetibilità, gli spettatori. Si scorrono, idealmente, le pagine del libro: la Mosca stalinista degli anni ’30, la critica meravigliosa a quella distorta forma di materialismo storico fatto dalla magia nera, dall’abracadabra mistico, esoterico del diavolo Voland – che gioca con la bacchetta di una metafisica, molto fisica, prossima alla patafisica di Jarry-, l’umanesimo sociale di Gesù e persino di Pilato, l’amore invincibile, folle e delicato tra il Maestro e Margherita. Tutto questo vive, in forma di pellicola corporea, sulla scena. Posseduti non da un singolo demone, invero più prossimo al pungolante e stimolante daimon socratico, ma da una intera legione, si cambiano il vestito d’anima dei vari personaggi, con la velocità e destrezza di un Fregoli, o di un contemporaneo Brachetti. E sudano: prova scientifica, inequivocabile, di uno sforzo continuo, tentativo di trovare un motus perpetuus in grado di sfidare qualunque attrito.

Coprono, con i propri fonemi, le latitudini degli italici idiomi, e di quelli stranieri. Il momento di divertita, e divertente, metateatralità dello spettacolo del diavolo potrebbe essere una lectio magistralis su come costruire una scena comica, avendo solo i propri corpi a disposizione. Ecco il patto di fruizione, il cortocircuito semantico, voluto, di una comicità irresistibile, con mani che portano la loro evidenza di essere solo mani, e, contemporaneamente, qualcosa di altro, come le pipe di Magritte. Mentre l’assistente, in grammelot ispanico, gioca con gli spettatori con la forza di un fiore che, semplicemente dagli occhi, viene, a un tempo,  visto, toccato e odorato. Come vive questa vita scenica, come lo fa bene, gustandosi lo stesso banchetto rimpianto dal buon Rimbaud, un banchetto  cui sono caldamente invitati a partecipare gli stessi spettatori. La voce calda, suadente, soffiata, del Mastroianni felliniano risuona, qui, come un’intenzione sottesa a ogni battuta e gesto: la vita è festa, viviamola insieme.

Immagine de Il Maestro e Margherita
Ph Maurizio Anderlini

La magia del diavolo di Bulgakov  diventa, qui, la riscoperta dell’irrazionale, meritata irrisolvibilità dell’equazione umana; del raccontarsi, senza sconti, senza infiorettature retoriche da laringi bronzate,  dell’essere umano, nella sua gioiosa assurdità. Chiara Sarcona è, letteralmente e prirandellianamente, una, nessuna e centomila: si dimostra, in scena, creatura proteiforme, prisma attraverso cui la luce del testo, rifrangendosi, si moltiplica in tutti i colori delle anime dei personaggi interpretati. E quella voce, leggermente grattata, che porta su di sé gli odorosi e tattili grumi di una pittura materica, si piega con la naturalità di un esercizio di ginnastica artistica, per entrare perfettamente nel vestito di ogni figura. Sacerdotessa della comicità, Pizia di un Apollo in alcolica licenza poetica, fa del suo corpo la moltiplicazione dei suoi fonemi, e della sua presenza fisica una monumentale scenografia. Ha duende, carattere, spirito in sovrabbondanza, da dividere con la platea.

Nicola D’Emidio, zanni in trasferta moscovita, diavolo biomeccanico, tratta gli sguardi come cosa salda. E timbra, marca anche il più piccolo suono, per mostrarlo agli spettatori con la stessa meraviglia di un bimbo che si accorga di un cristallo di neve, visibile, sulla manica del cappotto. Con la grazia innaturale del Nijinsky di Battiato, si muove sulla scena componendo  curvilinei quadri di Kandinskij. La sua bacchetta magica è fatta di due mani che danzano, come meduse oceaniche. Mentre il regista, Mario Gonzalez, riesce a rendere visibile un lavoro di rifinitura portato avanti con la dovizia dell’artigiano orafo. Il tempo dello spettacolo non è quello cronologico, ma quello cairologico, qualitativo, delle buone occasioni, in grado di allungarsi, rendendo ogni singola risata una presa di coscienza, che rende il qui-e-ora fecondato dalla consapevolezza. Non se ne dispiaccia, Cartesio, del fatto che il suo cogito ergo sum venga, qui, definitivamente emendato nel più spontaneo rideo ergo sum.

Immagine de IL Maestro e Margherita
Ph Maurizio Anderlini

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Incontrando il signor G. – Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Incontrando il signor G.

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Incontrando il signor G. L’omaggio all’originale, e unico, teatro-canzone di Gaber è portato in scena da Enrico Ballardini e Riccardo Dell’Orfano.

Ci vogliono due polmoni speciali, per portare in scena il signor G; anzi, occorre anche un diaframma che si gonfi di generoso vento interpretativo, come a condurre un veliero. Sì, perché Gaber va oltre Brecht, e crea uno sprechgesang tutto suo, un meticciato unico e incredibile tra parola e canzone, tra prosa e poesia. E i protagonisti di questo spettacolo hanno tutte le carte in regola per vincere questa sfida. Come i due legionari del De bello gallico, si danno la mano l’un altro, si sostengono a vicenda, si passano la palla verbale come fantasisti brasiliani, maestri nel gioco carioca. E, sin dalle prime battute, in platea si ha l’impressione di bere un vino forte, tannico, corposo, uno di quelli che ti scaldano subito le guance, il cuore, la testa. Mettono entrambi l’anima, e tutta la loro carne, nell’interpretazione.

E questo fa, di gran lunga, la differenza. Dionisiaci per vocazione, apollinei al momento giusto, quando la carrettella teatrale deve arrivare in cima ed esitare un attimo, giusto prima di un meritato applauso. E poi, c’è la musica del signor G; anche qui, gli interpreti danno gran prova cantando nell’unico modo possibile, ossia con sincerità, e mettendo nella voce quella luce che va trovata giù, giù, nel fondo di ogni possibile intenzione. Una fisarmonica diventa tutto un mondo, un girotondo, una giravolta, un’intera sala da ballo gioiosa e chiassosa. Si presta meravigliosamente a raccontare le emozioni umane a tutte le latitudini, coprendo l’intero spettro cardiaco: dalla malinconia, alla risata piena, di pancia, divertita e goduta. Qui non si “deliba” uno spettacolo con forchettine, coltellini e posateria varia; qui, signore e signori, si mangia con le mani, si sente il gusto, si tocca, si percepisce.

Immagine della recensione dello spettacolo Incontrando il signor G.

Nel teatro più riuscito, come questo, avviene un particolare miracolo, per cui è come se ci fosse una sorta di ipoteca tattile, ovvero la possibilità che, prima o poi, l’interprete tocchi, letteralmente, lo spettatore (e anche questo accade). E’ unica e irripetibile la magia di questo spettacolo, in grado di farti sentire la carne, i corpi, prima ancora che possano, in qualche modo, sfiorarti. E, ancor più, è un miracolo il farsi cosa salda della parola, recitata e cantata, essa stessa interprete del corpo; cosa viva e vitale, pronta a esplodere, come una supernova, in faccia a ogni spettatore. L’operazione è più che riuscita, visto che riesce davvero a toccare gli atri ed i ventricoli del teatro-canzone di Gaber. Non si limitano ad imitarlo, a farne una copia fotostatica, un cliché stanco e ripetitivo; piuttosto, lo elettrificano con la loro interpretazione, lo innervano.

Lo riempiono di quello spirito caustico, satirico, mordente del signor G, che sapeva leggere la società, e l’individuo, con una capacità di penetrazione ineguagliata. E’ talmente entrato nell’immaginario collettivo, che è irrinunciabile, da parte del pubblico, unirsi al coro della canzone La libertà. A dimostrazione che la parola di Gaber ha il potere di risvegliare qualcosa, in noi, di sonnecchiante ma non intontito, pronto a rivitalizzarsi con gli stimoli giusti. Enrico Ballardini, col suo viso antico, la barba da eroe omerico e il fuoco nello sguardo, è in grado di mesmerizzare immediatamente la platea, e un suo gesto potrebbe essere la formula canonica dell’ipnotizzatore: a me gli occhi, please. Nuota, letteralmente, nel testo e nelle canzoni, e non ha paura di andare dove non si tocca, di bagnarsi, di sporcarsi di parole, di farsele risuonare dentro, di spremerle fino a coglierne l’ultima goccia di senso e di vitalità.

Immagine della recensione dello spettacolo Incontrando il signor G.

Con la chitarra blueseggiante, e una tastiera vintage moogheggiante, costruisce un tessuto sonoro, in grado di donare un valore aggiunto alle canzoni. Riccardo Dell’Orfano, come un guascone dal cuore buono, porta con semplicità il pennacchio cyranesco della sua recitazione; è un Sancho Panza illuminato da un senno speciale, un raisonneur rorido di emozioni. E la sua fisarmonica sembra il naturale prolungamento della sua stessa voce, di tutte quelle emozioni che non ci stanno nelle parole, ma sono immediatamente espresse sui tasti dello strumento. Entrambi respirano con il diaframma, quasi tamburi di guerra, e come respirano; sembrano voler inghiottire il mondo, per poi restituirlo tutto, insieme a loro stessi. La fronte bagnata di sudore, la fatica che si mostra sulle loro camicie, sono testimonianza di un impegno che non viene mai meno per l’intero spettacolo, di una generosità assoluta.

Tutte le cellule dell’interprete, biologiche o spirituali che siano, devono fare la loro parte, per la riuscita dello spettacolo. Tutto il corpo è strumento, anzi orchestra, in grado di aggiungere la propria voce a quella dei due attori. Questo omaggio a Gaber profuma, decisamente, di cuore; si candida ad essere uno spettacolo diverso, altro, capace di risvegliare il senso più profondo di questa particolare forma d’arte scenica. Basta vedere, ascoltare la naturalezza con cui, da un monologo, si passa a una canzone, con una soluzione di continuità in cui non è possibile determinare dove finisca uno, e inizi l’altra. E quel particolare grassettato, quell’umore caldo che anima i fonemi di Gaber, è presente, come non mai, nei due interpreti, che si meritano tutti, ma proprio tutti, gli applausi con cui il pubblico può, catarticamente, tributare loro il giusto riconoscimento.

Immagine dello recensione dello spettacolo In contrando il signor G.

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Stasera si va accapo -Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Stasera si va accapo, con Marilina Giaquinta e Anna Nicoli. L’azione artistica è curata da Paola Brusa, e le musiche sono realizzate da Marco Pagani.

C’è un meraviglioso duetto, nell’opera lirica di Delibes Lakmé, chiamato duetto dei fiori, nel quale due donne si cantano l’anima vicendevolmente, accarezzando l’udito con la seta delle loro voci: ecco, le protagoniste di questo spettacolo hanno riprodotto quelle stesso effetto. Due voci, declinate al femminile, sono la quintessenza dell’umano, con il profumo di una metafisica sottile, lirica, che riesce a intridere di sé ogni ascoltatore. Marilina Giaquinta e Anna Nicoli vivono in scena un’unica ed irripetibile affinità elettiva, un magnifico gioco di specchi della galleria di Versailles, momentaneamente spostata a Milano, in piazza della Repubblica. Sono gioiose baccanti, che vibrano ancora di un rito dionisiaco misterioso, come il terzo uomo aristotelico, che vive in loro; ma, soprattutto, sono e dimostrano, con la loro voce e la loro presenza, tutta l’urgenza, la ribollente magmaticità dell’esserci.

I loro sorrisi, che vivono, nella percezione della platea, in una mesmerizzante soluzione di continuità, riproducono la linea curva dell’arco di Ulisse, in grado di scagliare frecce che ti arrivano fino ai più remoti anditi cardiaci. La scrittura di Marilina è materica, fisica, ha una sua percepibilità da parte di tutti i sensi. La si può toccare, odorare, fiutare; ne potrebbe seguire la scia anche il Gassman cieco di Profumo di donna. Qui si fa tesoro della lezione aristotelica della Poetica: la poesia non è data dalla forma esteriore, ma da quella ipoteca, quella sfida di universalità che sa lanciare, quello squarcio di assoluto che sa trovare tra le pieghe ritorte del linguaggio. L’etologia, l’astronomia, la scienza diventano  una lucente occasione di proporre poesia. Si ritorna, felicemente, ai presocratici. Non a caso l’autrice proviene dalla Sicilia, dalla Magna Grecia, in cui la filosofia era espressa in forma poetica;

Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

basti ricordare Parmenide, Eraclito, Empedocle. E, proprio come quest’ultimo si getta nel ventre del vulcano Etna, così l’autrice si immerge nella lava, nella materia ancora viva e vitale del linguaggio, e la restituisce allo spettatore, in tutto il suo calore e la sua forza. L’amore che qui si canta, è quello, disperato e disperante, necessario, estremo, delle due unità separate dell’essere androgino, che, una volta ritrovate, si abbracciano selvaggiamente, nel desiderio di fondersi. Il corpo diventa la bacchetta del rabdomante lirico, in grado di vibrare decisamente, laddove si trovi una fonte di questo eterno sentimento. Lo spettacolo si arricchisce, si sdoppia, anzi si triplica, attraverso l’intervento di due artisti, che aumentano la percezione sinestetica della pièce. Il musicista e compositore Marco Pagani crea delicatissimi passi di danza sonora, tessuti serici musicali, che frusciano felicemente tra la grazia tersicorea delle parole di questo spettacolo.

La pittura di Paola Brusa è un atto totale del corpo e dell’anima: un quadro di Pollock vivo, materico, trasudante emozioni e pensieri, che si arricchisce di parole, e si lascia scorrere nel fiume eracliteo, mai uguale per due volte, di ogni singola rappresentazione. Anna Nicoli ha ragioni del cuore che nemmeno Pascal conosce: nello sguardo porta la luce del sì alla vita della Molly Bloom joyciana, la curiosità impertinente e giocosa degli angioletti di Raffaello, la tenerezza pudica nel primo bacio dei puttini di Bouguereau. Ascoltarla è come sentire lo scorrere puro di una fonte, la semplicità e l’immediatezza del rumore dell’acqua che lega, nella sua essenza, il visibile e l’invisibile. Porge ogni fonema con delicatezza, come se offrisse, idealmente, fiori eterei  al pubblico. Marilina Giaquinta porta il suo siciliano in dote alle parole che pronuncia, e lo fa liberamente cortocircuitare in un gioco gaddiano,

Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

In questa dimensione il linguaggio si scrolla di dosso tutta l’accademica bronzatura, e tutta la pesante armatura del dover significare in modo univoco . La sua parola è veloce, agile: fa capriole, ha l’argento vivo dell’enfant terrible, ruba grappoli di luce al cielo della poesia, donandoli con generosità. Riesce a ritrovare la forza divulgativa della scienza nella sua poesia, colorandola e sfumandola con nuances tenui; riesce a suonare, parlando, emozionanti pianissimo. Ha, con la sua voce,  lo stesso struggente spirito di Beethoven nel film Amata immortale, che suonava il Chiaro di luna con l’orecchio attaccato al pianoforte, per “sentire” la vibrazione della sua musica. Ecco, l’autrice vuole far sentire le sue parole, vuole ricreare l’atto stesso, il terremoto emotivo che le hanno generate;  le modella, le plasma in corpi sempre cangianti.

Il senso del tatto aleggia in tutto lo spettacolo, come una forza di attrazione misteriosa e invincibile, un desiderio di voler percepire anche con la pelle la poesia, sentirne l’immediatezza corporea, così come sensazioni corporee erano le estasi delle sante e dei santi. E, di nuovo, un misterioso sorriso si palleggia da un’interprete all’altra, contagiando  i due artisti e tutti gli spettatori. Si realizza il miracolo di vedere La dama con l’ermellino condividere il misterioso arcuarsi delle labbra della Gioconda. E’ l’immediata, indeterminata, enigmatica chiosa al bisogno d’amore che viene comunicato in ogni verso poetico. Il lungo applauso finale, qui più che mai, diventa abbraccio, che il pubblico tutto tributa a ogni interprete di questa riuscitissima esperienza.

Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

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