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Amiche – Recensione Teatro

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Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Amiche, con Daniela La Pira e Chiara Malpezzi. Il testo e la regia sono a cura di Sergio Scorzillo.

Dove guarda l’attrice, mentre mastica pezzi di cuore, con il retrogusto di un’erba amara? Deve essere stato questo l’interrogativo del regista,  mentre impostava le due donne, deliziosamente coinvolte in un passo a due verbale. Quell’altrove, quel punto al di là di ogni possibile platea, quell’invisibile  centro di gravità che attira gli occhi felini, è il rito di passaggio, il superamento della carne, della barriera del dicibile; zona di struggente nostalgia che precede, o forse segue, la nascita di un personaggio, e, più generalmente, dell’essere umano. Sono terribilmente liquidi quegli occhi, e hanno i riflessi di certi ostinati raggi primaverili su specchi d’acqua che, sul tremulo orizzonte del ricordo, faticheresti a ricordare se hai davvero visto, o solo sognato. Ecco, dunque, l’intuizione improvvisa, l’acqua fredda in grado di risvegliarti i sensi: si tratta d’anima, in questa pièce. Si è, idealmente, in un interno tutto fatto di interiorità.

Il montaggio stesso, felicemente cinematografico, vale a testimoniare il tempo non più cronologico, ma cairologico; ricostruito dalla coscienza nell’argomento, nelle sovraimpressioni, nei salti in grado di plasmare, come un demiurgo, l’istante. Nella camera oscura psichica, si sviluppano queste eccezionali fotografie di esistenze declinate al femminile. Sono istantanee, nell’album di famiglia impresso sulle retine della platea, che bruciano letteralmente di sentimento, crepitando. Alcune battute, incastonate in preziosi monologhi, sono il dito bagnato che scorre sul bordo di una flȗte di cristallo;  hanno l’odore dell’anima, inconfondibile, che ti sale su per le narici come un potente mentolo, in grado di stordire quel senso. La vicenda è ambientata nell’inquieta Dublino degli anni ’80; il Peter Falk del Cielo sopra Berlino direbbe: “Era a Dublino? Ma sì, non fa differenza, è capitato.”  La vera geografia della storia è tutta costruita nell’anima. Vivono in scena la debole e la forte, il clown bianco e l’augusto.

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E ancora, lo spirito apollineo e quello dionisiaco, Edith e Helen: ecco la sempiterna diade, all’imperitura, travagliata,  ricerca della propria identità attraverso quella opposta. Seguendo Lacan, il desiderio è sempre il desiderio dell’altra; stavolta non è scritto sul tram, ma in certi sguardi reciproci, in certi sovrappensieri. In un mondo di uomini dalle mani troppo ingombranti e rudi, è meglio, per una donna, permettere che sia un’altra mano femminile a toccare il baco da seta della propria anima. In questa educazione sentimentale rimasta sospesa a metà, la timida e fragile Edith diventa uno specchio per la volitiva Helen, in un gioco delle parti che si fa osmotico, e in cui, con spirito bergmaniano, la persona è una continua dissolvenza incrociata tra un volto e l’altro. Se si vuole conoscere l’essere umano, questa è la lezione di psicoterapia ben adottata dal regista e autore Sergio Scorzillo.

Bisogna mettere uno specchio di fronte a un altro specchio: una donna di fronte a un’altra donna, una profondità di strati di fronte a un’altra profondità, un gioco di identificazioni che si perde, e si ritrova, nell’orizzonte della propria coscienza. I riferimenti al cinema non sono casuali, dal momento che il regista costruisce campi e controcampi; attimi d’ufficio, di vita, di intimità che sono la parte fondante nel montaggio esistenziale. D’altronde, era il buon Hitchcock ad affermare che il cinema è la vita, con tagli di pellicola nelle parti noiose. Ma c’è molto di più, qui. C’è la volontà, perfino superiore a quella di un febbricitante Fassbinder, di restituire il mélo in purezza, il cuore esposto nella sua verità, così com’è, con tutta la sua voglia di essere, le sue titubanze, i suoi pianti, i suoi sorrisi, i suoi pianissimo

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Gli stessi  fanno da contrappunto ai momenti in cui il pedale di risonanza del piano è pigiato con decisione, e le dita tuonano sulla laringe con una forza invincibile. Tutta la maestria del regista e delle interpreti si gioca su questi dialoghi, in cui le parole sono solo una parte minimale dei significati. La parte maggioritaria è nascosta in quegli spazi interstiziali, in quelle incolmabili fenditure, quei sovrappensieri, quei gesti nervosi e improvvisi che spezzano il tempo, che ne sono la sincope. E ancora, in certi fonemi c’è tutto lo scavo archeologico dell’anima dei personaggi. Ascoltare certe battute obbliga a sorseggiarle, come potrebbe obbligarti a farlo un vino fortemente tannico, strutturato, che deve far conoscenza del gusto, che non può e non deve essere frettolosamente rovesciato nella gola. Un meritato plauso va certamente alle due interpreti, che hanno costruito una partita serratissima di parole, un concertato di gesti, di canti e controcanti.

Daniela la Pira è una Helen dal carattere forte come certi whiskey che sorseggia, con l’abilità di far sostare per un po’ le battute nel ventre, prima di tirarle a lucido sulla carta vetrata della  laringe. Ma, quando mostra la sua fragilità , allora ti sembra di ascoltare il fruscio di certi tessuti di seta contro mobili antichi. Chiara Malpezzi è Edith: impiegata prossima, inizialmente, al rifiuto di vivere di un Bartleby melvilliano, scopre, come Ciàula, la sua Luna. I suoi fonemi  si mostrano prima inamidati, rigidi, per poi sbocciare come fiori davanti alla platea. Anima fragile, tormentata da un super-io freudiano molto cattolico e parecchio materno, trova il suo es nell’amica, e ci racconta, con l’amica stessa, le molteplici stagioni dell’anima.  Sergio Scorzillo  ci mostra tutte le occasioni di luce, e tutta la nostalgia per la sua mancanza, dentro la tenera notte di Fitzgerald dei due personaggi.

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Sinfonietta alcolica – Recensione teatro

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Immagine della recensione Sinfonietta alcolica

Nell’ambito della rassegna teatrale di Après-Coup, vi presentiamo lo spettacolo Sinfonietta alcolica, Omaggio ad Angelo Maria Ripellino nei cento anni della sua nascita 1923-2023, Recital in nove brindisi, con Alberto Astorri. Il progetto è curato dallo stesso interprete.

Come Lautremont è stato liricamente, esteticamente, affascinato dalla retrattilità degli artigli degli uccelli rapaci, io son stato letteralmente conquistato, ipnotizzato dal muscolo opponente del pollice di Alberto Astorri, che guizzava, trattenendo una spada posticcia. Come un misuratore emotivo di precisione, ha segnalato tutti i meravigliosi fuori scala dionisiaci di questa recitazione. Andrebbe chiamata in causa la teurgia, nel caso di questo interprete; la cerimonia brasiliana di Candomblè,  in cui i partecipanti/officianti, attraverso una danza frenetica, hanno la capacità di “indiarsi”. Ecco il corpo perfetto evocato da Artaud, la carne fatta anima salda, la laringe vibrante composta da tutto il corpo. Gustare questo interprete in scena equivale ad assistere a un’opera panica, alla volontà di schopenaueriana memoria, che spernacchia in direzione delle più stantie metafisiche. Guadagna la scena vestito come un direttore circense di oscuro paesino della Serbia, e apparentato, cromaticamente e nelle forme, a un personaggio dei quadri espressionisti.

Se osservate attentamente, come nella foto finale di Shining, lo vedrete giusto a un passo dall’entrata del Cristo di Ensor a Bruxelles. Vero e tonitruante come la bestemmia di un prete scomunicato, ha più forza un suo singolo fonema, anzi, prima ancora, un suo suono preverbale che tutta la Summa Theologiae di D’Aquino. Il suo disperato e, insieme, titanico omaggio è dedicato ad Angelo Maria Ripellino, al suo amour fou  per il teatro, per l’avanguardia russa, per una poesia altamente caustica, in grado di far felicemente piagare in stimmate esistenziali anche l’anima più algida. Diventa uno Sturm und Drang a tasso altamente alcolico, una tempesta di umori sublimati nell’angelo, in grado di riscattare anche la più oscura madame pipì del bagno pubblico di una stazione polacca di Katowice. Tempesta foneticamente, sussurra e grida come un Bergman in piena crisi nietzschiana.

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E sa tirarti fuori da quel ventre, da quella gola bitumata e asfaltata da qualche blues di Tom Waits, certe carezze bastarde che ti fanno un male cane, e che ti chiamano, dagli antri del perduto essere, le lacrime maggiormente saline. Mentre ingolla screwdriver sbagliati, che hanno abiurato l’arancia in favore della vodka in purezza, ti sembra di vederlo trasumanare in Oliver Reed della Brianza, molto più velenosa di quella di Battisti. Sarebbe pronto all’ennesima, fatale sfida a braccio di ferro con i suoi marinai in un pub di Malta, al pari dell’attore inglese, fino all’estremo sussulto diastolico e sistolico;  con i suoi appuntiti baffi alla francese, come due lancette spioventi dell’orologio, sembra una creatura biomeccanica, in grado di unirsi, in una fusione a livello genetico-molecolare, col più ansante, iperattivo, felicemente ispirato Balzac. Lui le parole non le recita, lui è la parola.

Vive quella più sacra e, insieme, più oscena, pronunciata dal sommo sacerdote nel sancta sanctorum. Non si limita a recitare, fa molto di più: si fa calligrafia di carne, abita il suo satori. Quando cade in scena, stremato dalla fatica sisifesca del verbo, insieme a lui cadono corpo e mente, cade l’illusione dell’ego, e tutto è esattamente ciò che è, disvelato in remissione della platea. Muore per rinascere, come l’eterna fenice. Se bisogna ascoltare il consiglio dello scrittore John Fante, e chiedere la verità alla polvere, il consiglio spassionato che do è interrogare quella smossa da Astorri su tutti i palcoscenici in cui ha bruciato, come i replicanti di Blade Runner, la fiamma da entrambe le estremità della candela. E anche sullo stelo, mi verrebbe da aggiungere. Con lui, Ripellino è restituito nell’atto stesso della scrittura poetica, anzi, di più: nelle scosse esistenziali, nel di dentro, ingorgato come un maelstrӧm, del poeta.

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Restituisce tutta , ma proprio tutta, la vivacità cromatica, la potenza – insieme, tragica e lisergica –  di un verbo che apre le porte della percezione. Corre insieme alla parola, corre con il fiato di tutti gli uomini che sono stati, che sono e saranno; corre per vincere in velocità i significati, per doppiarli, per trovare quelle incolmabili fenditure, quei momenti sudatissimi e meritatissimi di pausa, in cui ti verrebbe da domandargli quali dèi invisibili stiano osservando le sue pupille. Incarna la nostalgia della luce che può provare un Lucifero, e quanto il cerone del clown sia la farina di Eschilo e, insieme, quella di Tony Montana, che vede i cespugli della sua Dunsinane hollywoodiana muoversi, per la sua ineluttabile disfatta.  Ma, soprattutto, la incarna quando si camuffa nel finale, quando diventa la maschera definitiva di tutti gli Zanni.

Fa rivivere, con l’elettricità esoterica e metafisica di un Dottor Frankenstein, gli Sganarelli che si sono fatti deragliare la mandibola, a furia di piangere risate. Sono creature dolcissime in questi momenti, in cui si trovano a mezza via tra se stessi e gli altri da sé. Ha qualcosa di veramente sacro anche la più dozzinale maschera di gomma; ha il senso di compassione per tutta la tragicità della coscienza che la indossa. Ci si accorge dell’ultima verità, la più preziosa. Si avverte il canto d’amore estremo  nei confronti del teatro, l’amore invincibile per il proprio terribile carnefice, con l’abbraccio della fatale sindrome di Stoccolma. Nella struggente, tragicomica, esitazione nell’uscire dalla scena, oltre la delizia di quella che Tofano chiamerebbe la più riuscita  padovanella, si consuma, per tutta la platea, il commiato eterno, il  fermo immagine fatale di un amore che ancora vibra e brucia: un eterno severiniano nascosto alla vista, ma, per sempre, essente in tutti gli spettatori… applausi!

Immagine dell recensione di Sinfonietta alcolica

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Le Troiane – Recensione teatro

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Immagine dello spettacolo Le Troiane

Nell’ambito della rassegna teatrale 2023/2024 del Teatro di San Giuseppe di Rovello Porro vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Le Troiane, a cura di Nuove Prospettive APS. Alberto Mancioppi è il regista ed insieme il dramaturg che ha creato il testo, liberamente tratto dal lavoro di Euripide. Con Stefania Acquati, Deborah Caporale, Laura Carroccio, Mariano Di Rago. Maria Grazia Esposito, Francesco Ingrosso, Giorgia Meroni, Antonio Santoro, Maria Rosa Stercoli, Rosa Vitiello. L’aiuto regia è curata da Laura Carroccio.

Lo psicologo Hillman affermava che gli dèi sono diventati malattie, fumo sublimato del tabacco delle nevrosi, e in questo spettacolo, nella felice intuizione registica, diventano personaggi del varietà, cabarettistiche figure tragicomiche che giocano con il mondo, come il Chaplin de Il grande dittatore. Poseidone è un personaggio felliniano; un volto azzimato, un sigaro, un gioco di magia, un sorriso astratto e gentile da mimo innamorato di un invisibile fiore, sono il suo spettacolo d’arte varia di un dio innamorato perdutamente degli spettatori. Mentre Atena diventa una funerea Mercoledì Addams indispettita dai greci, vittima di violenti, accesissimi, sentimenti di desiderio di vendetta. Se i supereroi di Stan Lee dovevano avere, per geniale legge di contrappasso, super-problemi, questi Numi ne hanno ancora di più. Il mondo, copernicamente, si rovescia, ed il cielo olimpico si è ridotto ad una stralunata, minimale, compagnia di avanspettacolo. La polvere di stelle ci mette un attimo a diventare polvere di palcoscenico.

Ecco, infatti, che la tragedia è proprio lì, a meno di un passo. Proprio come Aristotele l’aveva decifrata, con un potenziale catartico altissimo, con l’universalità di una poesia che attraversa i secoli. Non è un caso che la poetessa Alda Merini abbia individuato, in un’immagine potente di questa tragedia euripidea, il sentimento in grado di generare la forza gravitazionale irresistibile, tonante, dei versi più alti: “una madre, Andromaca, a cui viene sottratto un bambino, Astianatte”. Si tratta di un dolore lancinante, senza limiti, che nessuna morfina del linguaggio è in grado di curare. La verità è l’urlo, lo strazio, il luogo non luogo in cui la parola si sveste di se stessa, entra in corto circuito con il proprio significare qualcosa. La vera divinità, conquistata a un prezzo troppo alto, ce la portano queste donne, vittima di una guerra di cui devono subire tutte le conseguenze.

Immagine dello spettacolo Le Troiane

Sono eterne, come eterno è il loro dolore, che, di conflitto in conflitto, ferisce la carne dei secoli. Il rigirarsi, i gesti apotropaici, l’impossibile preghiera, le braccia alzate, diventano la più sincera calligrafia di esistenze femminili schiacciate dalla violenza. Ecuba porta su di sé tutta la dignità ferita che non muore, tutta la fatica di essere nonostante tutto, la devastante sofferenza di una vita che continua a perdere terreno; e non le rimane altro che occupare il proprio spazio rimasto con una fiera verticalità. Si piega, si contorce come le rane galvaniche, viene parlata dalle sue parole, mentre il corpo, ed insieme i silenzi, gli atti mancati fonetici di freudiana memoria, fanno sentire tutta la verità di un inconscio che non è più quello dell’interprete, e nemmeno del personaggio: è quello collettivo di tutti noi, che vorrebbe che ogni fonema diventasse una dura pietra da lanciare.

Cassandra si ribella, prima di tutto, alla monumentalità della parola; si scrolla di dosso tutta, ma proprio tutta, la polvere fonetica, e agisce, in equilibrio da funambolo, sul filo sottilissimo della follia. Vede oltre il presente, oltre sé, oltre lo spazio scenico, ed oltre la platea. E la percezione visiva è fatalmente più veloce delle parole che la possono raccontare; perciò deve correre, correre maledettamente, questa fanciulla, per star dietro alle sue visioni, per fare parola del divino che è in lei, frainteso come pazzia. Porta su di sé, sulle proprie gambe, il rubro colore della violenza, del femminile eternamente violato, del fiore umiliato e calpestato che, ancora, riprende tutta la forza del suo colore e del profumo, malgrado il suo essere stato strappato e schiacciato. Andromaca soffre, o meglio, giocando tragicamente con le parole, s’offre al dolore più grande e più indicibile. In questo caso, le parole non possono che rarefarsi.

Immagine dello spettacolo Le Troiane

Diventano spinose, fanno sanguinare idealmente la bocca; la laringe si contrae, si squarcia, ogni volta che genera un suono. E’ la madre amputata nel suo più stretto vincolo affettivo, presente in ogni conflitto, che ci sfila davanti agli occhi nel racconto per immagini dell’ennesimo speciale televisivo. Non ci sono parole da aggiungere perché, in questo caso, vince nettamente l’insensata violenza della guerra: gioco, set, partita. Mentre Elena si gioca le sue ultime carte di seduzione con un Menelao nascosto dietro degli occhiali da sole, per cercare di regalare, al mito della sua militaresca dittatura, come canterebbe Battiato, del “sintomatico mistero”. Ormai, il meccanismo della guerra e della post guerra vive di vita propria, si dà la carica da solo; e persino Elena perde la sua centralità. E’ una memoria, una traccia, un dato storico: combatte, perciò, si agita perché le sia riconosciuta la sua forma vivente, la sua corporalità.

Ma finisce triturata dalle asciutte, aride, taglienti parole di un coniuge che, ormai, sembra provare maggiore piacere erotico nel gioco sadico della guerra. Taltibio mangia rumorosamente, potrebbe essere il mister Hyde del sergente Garcia, con la goffa caporaleschità totoiana, di un uomo qualunque con un grado sulle spalle. Sancho Panza ha smesso di seguire l’idealità donchisciottesca, e preferisce tirare a campare nel gioco dei potenti; tanto, ci sarà sempre una razione in più per lui, e si potrà sempre fare un buco in più al suo cinturone. Il coro, concentrato, essenzializzato in due interpreti, cerca di contrappuntare il dolore di Andromaca e delle altre donne della tragedia. Sta un passo indietro, con dignitosa umiltà; abbraccia con le parole, ma lo fa piano, per paura di fare male. In fondo, le Troiane sono il pianto di un bambino “mai nato”, o meglio “mai cresciuto, mai vissuto veramente”. Signori, toglietevi il cappello, perché questa è vera poesia tragica.

Immagine dello spettacolo Le Troiane

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Mater – Recensione teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Mater

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Mater. Il progetto drammaturgico e la regia sono curati da Mino Manni e Marta Ossoli, con il contributo di Fabrizio Kofler. L’interprete è Diana Ceni.

Diana Ceni ha un sorriso che vale tutta una summa theologiae; ha un quarto di luna appoggiato sul viso, a illuminare la notte della coscienza. Sorride, e l’orizzonte di quel sorridere è quasi metafisico. Sembra un’illuminazione interiore, stato dell’essere che filtra da un pertugio, facendo venire voglia, allo spettatore, di aprire quella porta, per vedere pienamente la luce. Quell’incurvatura ha qualcosa di dostoevskjiano, di mariano: emana una misercordia, un senso profondo di compassione per l’altro da sé.  Era fatale, sillogisticamente sicuro, che, prima o poi, da attrice, si confrontasse con l’archetipo della madre, della Maria evangelica. Ma, qui, non incarna una Madonna qualunque, un ritrattino agiografico, di fronte al quale appoggiare un lumino commemorativo; piuttosto, un personaggio con il codice genetico emotivo, psichico, spirituale che potrebbe appartenere a una creatura testoriana. Ѐ soprattutto carne, carne mischiata, fatalmente impastata e indistinguibile dal vento dell’anima che la agita.

E il dolore nelle viscere è più vivo; si amplifica come un requiem, come un’opera sinfonica suonata da tutto il corpo, che si torce, si piega, divenendo calligrafia della sofferenza, frase esistenziale grassettata che arriva, come una freccia, dritta dritta fino al cielo, per farlo sanguinare. La madre del dolore si alterna, meravigliosamente, con quella della tenerezza riservata al bimbo in fasce. In un tempo che non è più cronologico, ma è quello della memoria interiore, che fa andare, a suo piacimento, avanti e indietro la pellicola dei fatti, presente e passato si sovrappongono, come momenti della stessa coscienza, e l’ideale madeleine proustiana consumata dalla protagonista sa, terribilmente, di sale. L’azione è portata nella cascina, nella verità di un quarto stato concreto, vicino alla terra più del Calibano de La Tempesta di Shakespeare.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

In un grammelot evocante i sapori dei paesi che sfilano lungo i finestrini delle Nord, quando ancora ci si sedeva sul duro legno, la madre pare uscita dal pennello rabbioso di un pittore naїf, e incarna, con crescente intensità, il ruggito della tigre di Ligabue. Ascoltando questi fonemi così materici, così fantasticamente modellati sulle emozioni loro genitrici, si è presi da una sorta di incantamento, di allucinazione olfattiva. Sembra quasi di poter sentire gli odori rurali, dell’aia, delle bestie che alitano, combattendo, con la coda, i tafani nella stalla; ma anche l’odore dell’aria che si lascia contaminare dalla terra, creando la metafora perfetta dell’essere umano, lì, nell’impossibile via di mezzo tra la materia e il cielo. E poi c’è l’urlo, fatto di assordante silenzio, in cui mandibola e mascella lottano per rompere le catene che le tengono unite.

Impallidisce, l’Urlo di Munch, di fronte al dolore di una madre che perde il figlio, e che diventa tragica poesia. D’altra parte, è stata la poetessa Alda Merini a ricordarci che il motore della poesia avviene da questo straziante strappo. La Sindone espressionista, impressa su di un telo, lascia esplodere i suoi colori fatti di terra e di sangue raggrumato, traducendo in forma visiva il bachiano Vangelo secondo Matteo (parte, fra l’altro, della colonna sonora dello spettacolo). Diventa impronta non solo di un corpo, ma di una sofferenza, che, per rendere pienamente l’idea di sé, si fa tanto cosa sensibile, uscendo dal territorio linguistico, quanto traccia tangibile, annunciandosi agli spettatori in tutta la sua tragicità. La Passione è già avvenuta, il rovesciamento dell’antico dramma si è compiuto; a sigillo di ogni possibile tragedia, qui è il dio a sacrificarsi, chiudendo i conti con la dike.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

La divinità si è carrucolata in scena fin dall’inizio della vicenda, e chiede all’essere umano di diventare il nuovo deus ex machina. Mentre la madre diventa tutta un cuore dolorante; perfino l’anima si fa muscolo cardiaco. E tra gli atri ed i ventricoli, in quell’ambiente  perennemente umido di sangue, si ramificano nervi, che regalano un secondo cervello, una seconda mente a questa palpitante creatura. E questa ragione cardiaca non solo non è conosciuta dall’altra ragione, a più alte latitudini del collo, ma nemmeno da Pascal stesso. Diana, inoltre, in certi momenti, per utilizzare un’espressione dantesca, sembra letteralmente trasumanare; come posseduta da un daimon, entra in trance, e si ha la netta sensazione che parli sotto la dettatura di un invisibile angelo dionisiaco. In quei momenti, i suoi occhi sono illuminati da una luce del tutto particolare e unica, mentre la carne si fa marmo della poesia.

E quanto i suoi respiri sono essi stessi musica, anzi la sua più alta espressione, come tacet presenti sullo spartito del copione. E’ come se trattenesse nei polmoni il tempo suo e degli spettatori. Ansima l’attrice, fatica, ma sempre con gioia e serenità; si lascia attraversare da questa corrente impietosa e tumultuosa, abbandonandovisi con la grazia angelica di un’Ofelia adagiata nel suo letto liquido. Trasforma il sudario nelle fasce di un bimbo, e poi nel tableau vivant della Pietà michelangiolesca. E c’è buono, come canta Mina, che al momento giusto sa diventare l’altra, e abbraccia selvaggiamente, con la sua voce, con il suo sguardo, l’intera platea. E alla fine torna, sui generosi applausi, quel sorriso che si mangia tutto il mondo in un boccone, che è tutto il senso di una vita, al pari del fiore di Loto mostrato dal Buddha, come miglior risposta a qualunque dubbio.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

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La Lupa – Recensione teatro

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Immagine della recensione della Lupa

Nell’ambito della rassegna teatrale di STN-Studionovecento, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La Lupa, con Ailin Tracchia, Allegra D’Imporzano, Andrea Bonzi, Andrea Pella, Angelica Topolino, Bianca Cerro, Bianca del Basso, Giacomo Piseri, Lorenzo Fonti e Valentina Sangalli. La drammaturgia (liberamente tratta da Giovanni Verga) e la regia sono a cura di Marco. M. Pernich.

La Lupa non è un semplice personaggio, non è soltanto l’estrema incarnazione dell’ennesima Medea: è una categoria dell’anima, uno stato dell’essere, la quintessenza di Dioniso e, quindi, dello spirito del teatro. E Dioniso è, a sua volta, quello che si potrebbe definire una sorta di anti-divinità, nel rifiuto di adeguarsi passivamente al Fato, all’ineluttabile metafisico. Insomma, la Lupa è quanto di meglio si possa trovare, per ricreare lo spirito della stessa tragedia che viveva nel teatro di Dioniso. Il regista, Marco Pernich, trasforma la scena in un’orchestra e crea una skenè, ritrovando la parola che, con la propria libertaria divinità, sfida quella degli altri Numi. La protagonista si muove come una creatura a quattro zampe, aracnica, vissuta da un divino irriverente che si esprime, in pieno, nella carne. Sembra vivere, pervasa da una forza irresistibile, in una cerimonia di Candomblè, i cui partecipanti, danzando e muovendosi  freneticamente, sono abitati dalle divinità.

Come sarebbe piaciuto a Fersen, questo lavoro teatrale. Non più un approccio teologico alla scena, bensì teurgico, in cui i cieli siano dichiarati disabitati, e l’umano si apra a un disperato e disperante fiato “numinoso”.  La Lupa è una dea madre, un’Ecate, un’Astarte , un’Iside, una Kali: è l’eterno femminino, necessariamente umorale e carnale. Scopre i seni come gesto rituale, apotropaico, che la trasforma in un archetipo, in un segno di una poesia profondamente sensoriale, percettiva. Fa l’amore non solo con il corpo, ma con i pensieri, con i gesti, con le parole, rivendicando un approccio “orgasmico” con la realtà; se gli dèi condannano alla fine, che sia, come la definiscono i francesi, una douce mort. La figlia, apparentemente passiva, è, in realtà, l’elemento in grado di scardinare i meccanismi classici della tragedia. La sua inazione è più una rivendicazione esistenziale, volontà di porsi all’estremo opposto rispetto alla madre.

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

Ecco perché rifiuta il rito del capro espiatorio da compiere sulla madre; ecco perché, con la potenza di un Bartleby melvilliano, dichiara il suo inemendabile “avrei preferenza di no”. L’uomo della Lupa è il classico eroe tragico sofocleo, giocato a dadi dagli dèi: ora libero, ora prigioniero, ora ateo materialista, ora credente penitente, pronto a sfilare in processione. Sua sorella e il rispettivo compagno cercano di sfuggire all’irresistibile forza centripeta di questa storia, all’Ananke che si stringe intorno alla gola della Lupa; riescono ad accomiatarsi nel finale, sparendo dalla storia. Escono dalla luce del cerchio di Dioniso, perché si prepari il woyzeckiano finale, illuminato dalla luce rossa di un coltello. Il coro delle tre Parche, intanto, fila la storia, la osserva, la metabolizza, la normalizza nel filato delle parole e del testo scenico. Si animano in un rito arcaico, profondamente e deliberatamente pagano.

Rappresenta la loro luna nera, la parte oscura delle comari, che guardano la storia intorno a loro come regine del tua culpa. Niente è davvero come sembra: tutto scorre, i sentimenti, le personalità, ed Eraclito regna incontrastato. Il prete cerca di rivestire i panni di uno stanco raisonneur, che proprio fa fatica a far stare il quadrato della razionalità apollinea nel cerchio di Dioniso. Mentre, sul fondo della scena, il punto di fuga è rappresentato da due mezzibusti bianchi: vestigia di una metafisica pittorica, dechirichiana, simboli del maschile e del femminile che hanno abbandonato il tao del nero contrapposto al bianco. Ogni scena è un tableau vivant, un quadro in movimento; una ricca  iconografia fatta, prima di tutto, di immagini, di distanze e vicinanze che si giocano, ogni volta, in forma differente. Gli dèi si negano e si abiurano, sconfessandosi, perché possano nascere in altre forme.

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

Si tiene conto della lezione di Dioniso, pronto, come la fenice, a rinascere dalle proprie ceneri. La tragedia è una summa del grande triumvirato greco: Eschilo nel dinamismo irresistibile dei personaggi; Sofocle nel terribile gioco del gatto col topo, compiuto dal Fato nei confronti dell’umano; Euripide, infine, nella dialettica, nella scoperta delle voragini psicologiche dei personaggi, nel comprendere che ci sono più cose nell’umano che in cielo e in terra, rovesciando l’assunto di Polonio. Le luci tagliano, delineano, questi marmi umani, viventi. Una vampa di irrazionalità, di passione, splendidamente valorizzata, nei pieni orchestrali, da una luce rosso sangue. I luoghi deputati dell’azione hanno la caratteristica della circolarità, dell’eterno ritorno; raccolgono i personaggi come i numeri sul quadrante dell’orologio, mentre i corpi tagliano come lancette il tempo, lo sfibrano, lo accorciano o lo allungano.

Sono come le gambe di Woyzeck, un rasoio pronto a tagliare la gola al placido scorrere delle cose. Il maresciallo tenta di trovare una normalità che non esiste, e non ha nemmeno un soldato con cui lagnarsi, mentre si fa fare la barba. La processione religiosa è un istante meravigliosamente congelato nella calura siciliana: un falso movimento, un’immagine che sta per muoversi, minaccia di farlo, ma non lo fa. La rappresentazione iconica del sacro non riesce a muovere un passo, mentre la Lupa ne muove molti, uno dopo l’altro. Incarna la convinzione granitica di un’Antigone, la sensualità magico-misterica di una scatenata Medea, e porta in sé un’intera legione di Baccanti, pronte a consumare d’amore la carne, fino allo smembramento. E, proprio come Bocca di rosa di De Andrè, porta a spasso per il paese l’amore sacro, esattamente coincidente con quello profano. Signore e signori, la tragedia è servita!

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

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256 secondi, Piovono bombe! Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Piovono bombe

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo 256 secondi, Piovono bombe! Lo spettacolo è scritto e diretto da Cesare Gallarini. Queste “schegge” di bombardamenti sono raccontate da Cesare Gallarini, Lorena Marconi e Ottavio Bordone.

Con buona pace di Kubrick, qui decisamente si impara come odiare la bomba, la quale porta già in dote, nella parola che la denomina, l’onomatopeicità di un suono che ha ben poco di fumettistico, e troppo di tragico. Si racconta la storia di uno strumento di morte che ha, definitivamente, portato la guerra dai campi di marzo ai civili. A crollare non è più l’infestata casa degli Usher, bensì quella dell’uomo qualunque, dell’everyman che si vede, letteralmente, piovere dal cielo la tragedia; gli dèi si sono carrucolati nella scena umana troppo velocemente, pronti a scoppiare in faccia a qualunque platea. La bella intuizione di questo spettacolo è raccontare drammaturgicamente tutto questo, con una efficace e devastante normalità, avendo come bussola, per orientarsi in ogni bombardamento, quella banalità del male ben espressa dalla Arendt. Non ci sono gli eroi del mito, bensì persone comuni, che muoiono.

Perdono la vita a causa di questa pioggia futurista, metallica, dirompente, provocata dalla meteorologia distorta di generali, i quali sono ancora convinti, che, sopra la collina ci sia la notte crucca e assassina; ma gli unici, veri assassini sono loro. La verità di questa assurda etica rovesciata si basa su di una fredda media statistica: se un essere umano ucciso equivale a un omicidio, migliaia sono il risultato di una guerra. In una scena essenziale, gli oggetti sono correlativi oggettivi di questo spaventoso altro, segni tangibili di ciò che rimane; ogni accessorio serve a testimoniare che tutto questo è stato, è, e speriamo che non sarà più. Cesare Gallarini incarna il pilota, o, meglio, ogni possibile pilota che trasporta questo strumento di morte; con la sua fisicità imponente, la sua voce rustica, con tannini di una vocalità intensa, corposa come un buon bicchiere di lambrusco, dice l’indicibile.

Immagine della recensione dello spettacolo Piovono bombe

Usa l’efficacissima arma di una sottile comicità straniata, brechtiana, per descrivere la  quotidianità dei bombardamenti. Ma lì, proprio dietro l’ultimo fonema, a meno di un soffio dall’ultimo fiato, ecco che appare un’intenzione deviante: fa mostra di sé l’anima buona di qualunque Sezuan, che piange in silenzio, terzopersonalizzandosi epicamente. Lorena Marconi è la cittadina, la vittima, sguardo stupito  verso un cielo che dovrebbe ospitare le nostre migliori intenzioni, e, invece, ospita creature mostruose che sputano fuoco sulla città, draghi postmoderni che difficilmente i cavalieri della contraerea potranno abbattere. E poi Lorena ha certi sorrisi, piccoli e delicati, che ti entrano dentro, scavando una strada di fuga dall’orrore. Si riesce a vedere, nella curva di quelle labbra, una tenue speranza; risuona sommessamente il canto di una Vera Lynn, a ricordarci che, forse, ci incontreremo di nuovo in un giorno di sole, dopo l’ultima guerra.

E poi c’è quello sguardo di madre, nel racconto del bombardamento sulla scuola di Gorla, con tutto lo spaesamento di un essere in grado di dimostrare che le bombe, oltre che le case, sradicano le anime. Con le bambole in mano, costringe ogni dio della tragedia all’unico silenzio possibile. Non ci son scuse, Dostoesvskij docet: ciò che rimane incomprensibile, ciò che suona come una fatale accusa per ogni possibile abitante del cielo, è la violenza contro i bambini. Ottavio Bordone è il giornalista raisonneur che batte ostinatamente sulla sua vecchia macchina da scrivere, come il reporter che si trova il proprio cantuccio lirico per portare la propria testimonianza, per regalare alla vicenda un particolare ritmo: quello delle dita sui tasti. E’ una presenza discreta che lega i fili di questa vicenda, uno alla volta, in grado di ricomporre, con dovizia, questa tela di Penelope, che proprio non sa se potrà reincontrare Ulisse.

Immagine della recensione dello spettacolo Piovono bombe

Ogni parola di questo spettacolo è maledettamente necessaria; è uno schiaffo alla letargia dell’indignazione, alle coscienze impigrite, per cui il mondo delle immagini si contamina di realtà, finzione, e consigli per gli acquisti. La denuncia è questa testimonianza chiara, limpida come acqua di fonte. Non c’è fascinazione alcuna nella guerra, non c’è prosecuzione di alcuna diplomazia: solo l’orrore dell’ennesimo Kurtz, capace di raccontare il delirio dal cuore di tenebra di ogni guerra, trovando del metodo poloniano in questa follia. Mesdames e Messieurs, questo è autentico teatro civile di denominazione di origine controllata. Si racconta l’inferno dei bombardamenti senza sconti, senza orpelli, senza infiocchettature retoriche di alcun tipo. E, per citare una canzone di The Wall dei Pink Floyd, ci si meraviglia di come persone debbano, ancora oggi, correre ai rifugi, quando la promessa di un nuovo mondo è stata sbandierata mille volte sotto un cielo azzurro.

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Eclissi (e altre cose oscure) Recensione Teatro

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immagine della recensione di Eclissi e altre cose oscure

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Eclissi (e altre cose oscure), scritto, diretto e interpretato da Alessandro Veronese.

Eccolo lì, Alessandro Veronese, con lo sguardo rivolto a qualche invisibile daimon, uno di quelli che anche Socrate preferisce ignorare. Sembra Bob Geldof nel film The Wall. Questa, ci dice idealmente, è one of my turns, quindi sarebbe il caso di tirare fuori, come Pink, la sua favourite axe dal cassetto. Ma le parole sono molto più affilate, e si prestano meglio a questo scopo. D’altra parte, sbucciando la cipolla dell’anima, prima o poi verrà da piangere, e ci si confronterà con la parte più interna, quella dal sapore più forte; chissà se tutto questo Peer Gynt lo sa, mentre sfoglia la sua  cipolla. Quello che l’interprete sa è di avere una storia, piuttosto caustica: ci si ustionano le mani ad ascoltarla. Non solo il sonno della ragione, ma anche la sua veglia forzata, le sue evidenti occhiaie, diventano mostri.

Sono fra quelle creature che, per quanto facciano orrore, non si può astenersi dall’osservare, proprio come se le nostre palpebre fossero bloccate, al pari di quelle di Alex durante il trattamento Ludovico. Gioca con Aristotele l’attore, si beve una birra bukowskiana con lo Stagirita, trasforma le proverbiali unità in un gioco delle tre carte, invitandoci a capire dove sia  la verità; ogni volta ci pare di saperlo, dalla parte della platea, ma quella carta sta sempre in un’altra posizione. Perché l’unica verità consiste in un immancabile asso nella manica, quello di una finzione pessoana, che finge il dolore percepito veramente. Poi ci sono gli occhi, a mettere le cose a posto: farebbero abbassare lo sguardo al dio della tragedia, e forse anche al dio della biomeccanica dei replicanti. Ti parlano direttamente nella testa, senza mediazioni.

immagine della recensione di Eclisse e altre cose oscure

Sono parole non più attutite da significati, sono struggente mancanza, sono un non essere che ha talmente voglia di essere, da mandare a carte e quarantotto il monologo di Amleto. Madamina, il catalogo è questo, verrebbe da pensare, sentendo sfilare le conquiste di questo Casanova di qualche periferia testoriana; ma qui è già accaduto tutto, siamo già oltre il finale dell’opera, la statua del commendatore ha già trascinato il seduttore all’inferno. Peccato che quell’inferno bruci molto meno, rispetto a quello che viveva già dentro di sé. Qui la seduzione ritorna al suo significato originario: è un se – ducere, un tentativo di condurre a sé, di non accontentarsi dello specchio dell’altra, ma di mangiarne l’anima, perché diventi quella che ci manca. E poi l’intuizione, in questo srotolarsi di verità scomode, di nodi esistenziali, che nemmeno il pettine della drammaturgia potrebbe sciogliere.

Lo spettatore stesso diventa un’altra conquista del personaggio, venendo attratto irresistibilmente da questo fascinoso black hole, questo orizzonte cui nemmeno la luce riesce a sfuggire, e può mostrare la sua struggente cattività dietro un paio di pupille attonite. Poco importa che, a marciare contro questo Macbeth, non sia la foresta di Birnam, ma siano pericolosi usurai. Il tempo è sempre lì, con il suo fastidiosissimo tictac, e la sfida esistenziale continua, attimo dopo attimo, istante dopo istante. Poco importa che il tictac sia il cursore sul foglio bianco di Word: ogni oggetto esterno è lì a richiamare il tempo, in tutte le sue forme. E se tacerà tutto, il cuore, provato, infartuato fisicamente e metaforicamente, sarà sempre lì a segnalare lo scorrere dell’esistenza, come il muscolo cardiaco del racconto di Poe. Ecco tutta la verità, nient’altro che la verità, sull’amore.

Immagine della recensione di Eclisse e altre cose oscure

O, meglio, su di uno straziante bisogno d’amore che arriva a ferirsi, pur di non ferire. Ecco una nudità estrema, un paesaggio interiore che si mostra, con la naturalità di un anatomopatologo pronto ad aprire il ventre per mostrarne il contenuto; uno strano cervello ipertrofico, passato attraverso la mutazione imposta dal cuore. Guarda, Veronese, prima di tutto, le sue parole: questi esseri fragili, a volte  freaks che nessuno vorrebbe ospitare, e che potrebbero far mostra di sé in un gabinetto delle meraviglie, in una fiera vittoriana. E, in mezzo, si trova anche qualche piccolo arcobaleno, qualche lucciola di poesia che combatte per non farsi compromettere le ali dal nero disagio dell’anima. Potremmo sentir gridare, da un momento all’altro, come in Elephant Man di David Lynch: “I am a human being!”, “ Io sono un essere umano!”. E lo è, molto più di un essere umano.

Rappresenta una nuova ibridazione:  l’autore, il personaggio e l‘uomo insieme, in una splendida sovrimpressione, una di quelle che solo i paesaggi dell’inconscio sanno creare. E, più che paura di lui, si ha paura di ciò che di lui si scopre avere in sé, un grumo di paure, contraddizioni, errori bagnati dalla rugiada della poesia . Ha tutto il sapore di un pinkfloydiano final cut, quello di Veronese, che chiama gli ultimi giri di una partita a poker esistenziale, in cui è già sotto di tanto. Se Artaud voleva farla finita con il Giudizio di Dio, qui l’interprete vuole farla finita con i processi sommari, con le regine del “tua culpa”, del chiacchiericcio insinuante, delle calunnie rossiniane che, più che un venticello, sono diventate tornados. “Questo sono io”, ci dice, metà Calibano e metà Ariel, metà angelo e metà demone, “e voi abbracciatemi, perché, in fondo, siete della stessa carne”.

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