Con la guerra nel cuore – Recensione teatro
Nell’ambito della rassegna teatrale di Manifatture Teatrali Milanesi Presso la sala La Cavallerizza del Teatro Litta, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Con la guerra nel cuore, Il conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni per attrice sola, con Rossella Rapisarda. Il progetto e la regia sono curati da Alberto Oliva. La drammaturgia è firmata da Bruno Stori. L’assistente alla regia è Fabrizio Kofler. La scena e i costumi sono a cura di Francesca Ghedini. Il disegno luci è realizzato da Alessandro Tinelli. Le musiche firmate da Marco Pagani.
Ci vuole un fool shakesperiano, con la fame atavica dello zanni, con frammenti del Dna giunti dal servus stolidus plautino, con le furberie di uno Scapino molieriano, e con il capostipite preso dritto dritto dalla caustica comicità aristofanesca, per raccontare la follia della guerra. Questa geniale intuizione prende corpo in un lavoro dove si compie il miracolo di vedere una Trilly teatrale, ossia Rossella Rapisarda, fare di un palcoscenico un regno e principi per attori. Rossella ha un’incontenibile joie de vivre, la forza esplosiva del nitroglicerinico sì di Molly Bloom. Il suo muoversi, la sua coreutica leggerezza in scena diventano una calligrafia frenetica di gesti, fitta fitta; sono un puro distillato di vita, un sorriso disegnato dai movimenti, costruito con il compasso delle gambe. La tragedia manzoniana del conte di Carmagnola, paludata dagli studi scolastici, e da quell’esercizio laboratoriale di drammaturgia sotto le insegne di Melpomene, noto sin dai tempi del buon vecchio Seneca.
Diviene uno spettacolo più leggero della piuma del cappello di Cyrano: così poetico, e, insieme, necessario. Il cavallo agognato da Riccardo III diventa un cavallo di legno; la versione dadaista del cavallo di Troia, ridotto a quella dimensione di gioco drammatico, fatale, della guerra. Non a caso ci sono anche pezzi degli scacchi, per il tentativo di conciliare un po’ di spirito apollineo in quell’atto di violenza dionisiaco, barbaro, distruttivo. La protagonista annoda letteralmente il filo, ovvero la corda della vicenda; si presenta alla platea come triplice sintesi delle Parche, Cloto, Lachesi ed Atropo, impegnate nella guerra lampo dei fratelli avanti Marx. E quell’interrogativo che urge nel testo, “la verità sulla guerra, vi prego”, trova risposta nella micidiale, efficacissima semplicità dell’attrice: sorsata generosa di acqua fresca di fonte, di teatralità genuina, che si pone ancora il compito di confrontarsi poeticamente con la polis.
La battaglia, o, meglio ancora, tutta la pomposa narrazione scontata della guerra, sono decisamente demitizzate, nelle mani, nei piedi e nella voce di un folletto, che può prendersi, finalmente, la libertà di raccontare, senza un filo di grasso retorico, tutta la scomodissima verità dell’homo homini lupus. Divora, questa meravigliosa creatura, una semplice mela con la foga ruzantiana, trasformando i morsi in un esercizio di grammelot fonetico, e creando una potente metafora, forte quanto il pugnale del ghiaccio nell’Amleto di Nekrosius. Non servono scenografie iperboliche, o mezzi di distrazione scenica di massa, per la riuscita di un buon lavoro teatrale; questo monologo lo conferma pienamente, anzi, lo certifica. Filosofeggia pure, questo eccezionale enfant terrible, questa Zazie appena uscita dal metrò di Cadorna, per entrare nella Sala della Cavallerizza del Teatro Litta. E come sa fare bene filosofia, chiamando in causa Venere e Marte.
Spiega, allo stupito e attento pubblico, quanto, per aggiustare gli atteggiamenti autodistruttivi dell’essere umano, sia necessario compiere una rivoluzione copernicana rispetto all’antico sistema martecentrico. Il drammaturgo Bruno Stori merita molto più di un plauso, avendo trovato una meravigliosa sfrondatura occamiana della vicenda, e mostrandone il cuore attraverso la voce di una sola interprete. Mentre il regista Alberto Oliva non perde l’appuntamento con tutte le potenziali occasioni sceniche: prende per mano questo lavoro e non lo abbandona nemmeno per un istante, e capitalizza tutto, ma proprio tutto, il fiato dell’attrice, trasformando, idealmente, i suoi polmoni nel ventre di Eolo. Deve per forza esserci una diversa geometria non euclidea, una fisica differente; deve avere la densità di un black hole il piccolo, ma grande corpo di Rossella Rapisarda, per poter ospitare tutta questa travolgente energia. Non c’è fonema, non c’è saetta lanciata dalla laringe che non arrivi a bersaglio, meglio delle frecce della battaglia di Hastings.
Non c’è istante in cui la protagonista non senta tutta l’urgenza di essere in scena, non per se stessa, ma per la platea tutta, per il teatro. Se davvero, come si augura Goethe, il palcoscenico diventasse la corda di un funambolo, si potrebbe ben dire che questa attrice è una meravigliosa equilibrista, che potrebbe fare la traversata recando pure un ombrellino e un monociclo. Si riesce anche a citare il grande psicologo Hillman, ricordando la forza gravitazionale, apparentemente invincibile, dello spirito della guerra; un fascino discreto più forte di quello espresso dalla borghesia buñueliana. Appare, inattesa, la moglie di Carmagnola, regalandoci un momento struggente, drammatico, che odora di lacrime e di pietas tutta declinata al femminile. E non può fare altro che sedersi sul palco, l’attrice, a un certo punto, per parlare direttamente alla platea senza fronzoli, senza belletti, trovando davvero fresche parole, come il fruscio che fan le foglie.
Sono profumate di sorriso, sono una di quelle carezze leggere e materne, in grado di curare una bua dell’anima, recidiva ad altri sistemi di cura. Risuonano di una matericità che gratta appena la laringe, che dà al suono una corposa sostanza in grado di caderti addosso come una pioggia sottile. Ti entrano dentro, si scavano un nido proprio lì, tra gli atrii e i ventricoli del cuore, per non andarsene più. Sono un dono prezioso che, al pari di una gemma, viene dato in mano alla platea tutta. Esprimono, con orgoglio e dignità, tutta la necessità del teatro, la forza etica dell’imperativo kantiano, di questa straordinaria forma di umanesimo, dove l’uomo chiede all’uomo di ascoltare e ascoltarsi; nella convinzione che la bellezza, se non salverà il mondo, almeno riuscirà ad infondergli il dubbio che le cose possano andare in altro modo
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