Un’altra vita – Recensione Teatro
Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Un’altra vita, recitato dall’attrice Silvia Soncini, che è anche autrice della drammaturgia insieme a Claudia Pozzo. Il lavoro è liberamente tratto dal romanzo Non lasciarmi dello scrittore britannico vincitore del Premio Nobel per la Letteratura 2017 Kazuo Ishiguro.
Ci vorrebbe un’altra vita, cantava Battiato, ma un’altra vita c’è già, e sta lì, ad un passo dagli spettatori, in un salotto milanese di Piazza della Repubblica, dove Mariagrazia Innecco fa di una stanza un regno, e principi per interpreti, per scriverla come il Bardo di Stratford-upon-Avon. Questa volta è il turno dell’attrice Silvia Soncini che ha un viso insieme antico e moderno, porta la voce del mare con sé, quando si annuncia, da un lato della strada, mentre lo si raggiunge in macchina. Ha la purezza, la nobiltà ed insieme l’umiltà dell’acqua che scintilla, come uno scudo liquido, di fronte ai dardi del sole del personaggio che interpreta. E la sua voce ha la chiarezza, l’evidenza e la semplicità di un pane spezzato, di una comunione sincera da vivere e da condividere con lo spettatore. Non si limita a parlare Silvia, ma ci soffia in faccia l’alito della sua anima.
Ed è leggero, ma brucia anche sulla pelle, come il freddo dei momenti tragici che racconta. Il suo vestito nero è una sorta di negativo fotografico di un’anima che ha il colore dell’avorio, ed ha un’invincibile voglia d’essere più di sé stessa, d’esser quel noi, quella segreta alchimia di condivisione che unisce la platea ed il palcoscenico. La storia che incarna è quella raccontata nel romanzo “Non lasciarmi” del premio Nobel Kazuo Ishiguro, il racconto di un’animula vagula e blandula di un collegio, senza passato, né genitori, che condivide il tragico destino di altri studenti, ossia quello di avere solo l’ombra di un’esistenza, la certezza di uno scacco matto esistenziale che ha una data ed un nome preciso. Ma scopre l’amore come Ciaula scopre la Luna, scopre l’Antigone che ha in sé, e le leggi del cuore che fatalmente sono a distanze siderali da quelle formali.
Si rinnova l’eterna sfida della tragedia, ma senza il passo tragico e solenne del coturno, piuttosto quello lieve di una donna, di un’eroina sofoclea per vocazione, che vorrebbe in maniera struggente che Atropo aspettasse un po’ di più a tagliare il filo della sua vita. E se i mulini degli dei di Omero macinano lentamente, altrettanto non fanno quelli di questa storia, sono ruote che girano veloci, in maniera incessante, che chiedono ancora un altro sacrificio. Ma la protagonista, che ha il compito di assistere più e più volte, reiteratamente, al destino che lei stessa avrà, vive la sua impossibile partita già persa, eppure in ogni mossa, in ogni fonema che ci regala, in ogni gesto aggraziato, pensato, semplice e perfetto, nello stile essenziale di uno zen teatrale, alza la testa verso il suo cielo e lo guarda con forza e dignità
E sente anche lei, in fondo al cuore, di avere il legittimo desiderio di appartenere ad esso, di un’altra vita. Certi sguardi dell’attrice, che ti inchiodano lì al tuo posto, come un entomologo fa con lo spillo sulla farfalla, sono tutte verità che trascendono le parole, che possono dirsi solo nell’immediatezza sensoriale, l’ultima verità di un misticismo della religione universale dell’umano, scritta sui fogli del corpo, comprensibile da tutti perché sono pagine che lo spettatore sfoglia al proprio interno. Heidegger, per un attimo, è un’intuizione rapida e totale rivelata dalla recitazione di una interprete, l’uscita dal pensiero impersonale del “tutto finisce”, del “si muore”, come un fatto oggettivo osservabile sempre dall’esterno, come un dato fattuale, e l’approdo all’io dello spettatore che vive questa tremenda possibilità, che dà colore, nitidezza e forza alle scelte, le rende autentiche, necessarie. E Silvia ci racconta tutto questo con una recitazione decisa, ma insieme in punta di piedi.
È in grado di fare con il dolore, quello che il gelo fa con l’acqua, trasformarlo in un meraviglioso cristallo, che non si può far a meno di guardare. La sua vocalità si spoglia del metallo di certe laringi bronzate, e arriva a restituirci la verità di se stessa, di una passione con la necessità, l’urgenza di dirsi, meglio ancora, di donarsi alla platea. Non c’è alcuna barriera, alcun filtro, e la vicinanza tra pubblico ed interprete si traduce in vicinanza spirituale, emotiva, fino a diventare una sovrimpressione di anime. E se normalmente la parola insegue sempre a qualche passo di distanza ciò che dovrebbe rappresentare, qui, in certi momenti di grazia, arriva alla perfetta sovrapposizione, il significante ed il significato diventano indistinguibili, il personaggio e l’attrice non hanno alcuna terza persona di distanza. E questo avviene proprio quando la parola giunge al suo confine, sfida il limite della dicibilità.
Diventa un silenzio, un sovrappensiero, con più pagine, grondante anima, che avvolge, conquista, abbraccia con forza, quasi fino a farti male. Tutte le creature di questo meraviglioso racconto, in fondo, non chiedono altro che dare ai propri polmoni esistenziali la possibilità di espandersi in un passato, avere ricordi, testimonianze del proprio esserci, e dilatarsi nel futuro così incerto, così chiuso in un orizzonte limitato. Non si può non sentire un’empatia, un’inevitabile comunanza con questi esseri che sentono, per usare una metafora pirandelliana, le tavole dell’esistenza mancare sotto i loro, e i nostri, piedi. Se il teatro è tutt’ora un rito che porta ancora un po’ dell’incenso di cerimonie sacre, è perché esistono spettacoli come questo, attrici come questa, che guarda, per noi, in faccia tutta la fragilità della condizione umana, e ce la restituisce, sublimandola, in sguardi e gesti che fanno tremare le vene dei polsi delle divinità.
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