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Strehler e gli angeli di Swedenborg

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Vi proponiamo un articolo che rende omaggio al Giorgio Strehler, il regista teatrale che ha portato gli angeli di Swedenborg sul palcoscenico. La sua opera rappresenta un cielo di stelle fisse che rimane come luminoso patrimonio del teatro del novecento.

Swedenborg vedeva gli angeli a Parigi; Strehler li vedeva, e li faceva vedere, sul palcoscenico. Il paio di ali erano le luci, i gesti, le parole. Dalla parte della platea si viveva tutto lo stupore e la partecipazione nei confronti di quella grande magia, di quell’abracadabra, che portava alla realtà l’universale della poesia. Non per nulla il suo stile è stato definito realismo poetico. In lui si agitava un daimon di socratica memoria, o, meglio ancora, una divinità che cercava di parlare attraverso la metafora dell’umano. Si collocava proprio lì, ai bordi dell’indicibile, sfidando la parola a rompere la trappola degli specchi, dell’eterno rimando a se stessa. Piuttosto il verbo strehleriano è sempre stato una freccia puntata contro il cielo, il pugno verso l’alto del Beethoven sul letto di morte, il gesto di Prometeo pronto a violare la legge di Zeus. È stato un alchimista dell’umanesimo.

Ha avuto la capacità di cercare pervicacemente, e di trovare, la pietra filosofale in grado di tramutare il piombo del prosaico nell’oro lirico. La parola umanesimo non è casuale, per un regista che si candida ad essere l’estrema propaggine di un sentimento rinascimentale, di una presenza umana collocata nel mezzo del cosmo e della conoscenza universale. L’eterno impasse della tragedia, la strada senza uscita, il cul de sac ha trovato, in lui, una soluzione alternativa. Se il meccanismo, di stampo musicale, di tensione e risoluzione, di hybris e dike, ovvero di ascesa e caduta, aveva dominato la scena da 25 secoli, ecco improvvisamente che un uomo di teatro trova il sistema di ingannare questo sistema, di modulare, come nei temi wagneriani, di cambiare tonalità, per dare l’impressione che l’apice sia sempre un po’ più in là. Il carretto dello spettacolo dei Giganti viene distrutto dal sipario alla fine dello spettacolo.

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E rinascerà sempre per la replica successiva. Basta risentire le sue interviste per avere il riscontro di un temperatura emotiva sempre alta, altissima, basta leggere le sue lettere battute a macchina per ritrovare, a ritroso, la forza delle dita martellanti sui tasti (è sufficiente chiudere gli occhi per immaginare quel frenetico ticchettare, quella ritmica verbale pronta a esplodere su una Olivetti), e, ancora prima, di un pensiero che ha l’urgenza di dirsi, di confessarsi a sé e agli altri. La vocazione di Strehler è sempre stata assoluta, la scelta di un mistico, di un anacoreta, di un monaco che non scende a compromessi, di un’Antigone che ha il suo assoluto, e che sia l’intero o il nulla. Vederlo in azione durante le prove equivaleva ad assistere a un moto perpetuo, ad un pendolo umano infaticabile che tracciava il suo movimento oscillatorio tra la platea ed il palcoscenico.

Era un infaticabile Arlecchino servitore di mille padroni, di mille attori, di mille personaggi. Guardava la scena portando in dote ai suoi occhi lo sguardo del bambino in grado ancora di stupirsi, di trovare una sorta di magia in ciò che lo circonda. Il fanciullino di Pascoli, le poesie dell’innocenza di Blake vivevano in lui e il suo teatro, ma anche lo sturm und drang, i dolori di Werther, l’incurabile ferita metafisica piantata nel più profondo della sua carne spirituale. Non stupisce il fatto che, a un certo punto, abbia non solo trovato la perfetta affinità elettiva con il personaggio di Faust, ma abbia sentito forte, imperativa, l’esigenza di incarnarlo, di interpretarlo. Quella luce azzurrognola, cilestrina, come la lettera evocata nei Sei personaggi, sembrava fatta apposta per esprimere immediatamente, senza mediazioni o metafore, il suo manifesto poetico, la sua invincibile voglia di trasumanare attraverso l’umano.

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Si tratta di una luce “numinosa” che apparentemente raffredda, ma in realtà porta ciò che rischiara in una dimensione altra, più alta, in un iperuranio messo lì per ricordare che l’essere umano è un crogiolo di universali, di idee e di passioni. Strehler trascolorava la realtà, il suo azzurro era quello dei quadri di Chagall, un colore magico,esoterico, un rito di iniziazione, la versione moderna, contemporanea, dei misteri eleusini, dei riti mitriaci, orfici, di un’estasi bacchica di tutto il sensorio. Ogni dettaglio non veniva trascurato, diventava un gioco frattalico, l’occasione per trovare un mondo nel dettaglio del mondo scenico. Nel suo modo di scrutare la scena dietro la severità dello sguardo, dietro il cipiglio da statua antica, da patrizio romano, si trovava certamente l’irrequietezza di un dio che offriva generosamente parti di sé, per lasciare spazio alla creazione. E della divinità viveva tutta l’inquietudine, l’archetipica malattia dello spirito sempre affamato.

Il suo Brecht rimane come la memoria indelebile di una tensione morale e politica che, finalmente, traguarda, senza maschere o nascondimenti, in una drammaturgia. Lo straniamento, la scelta anti-aristotelica, la necessità di aprire una continua dialettica hegeliana all’interno del testo, tra immedesimazione ed epicità, rappresentavano qualcosa che gli apparteneva. Bene si capisce l’entusiasmo del drammaturgo tedesco nel ritrovare, nel nostro regista, l’essenza stessa di quel modo di fare teatro. Strehler faceva incessantemente il filo al rasoio dei suoi spettacoli, ed era un piacere sentire, da spettatore, il freddo di quella lama, e insieme il brivido caldo che ti provocava quel metallo, visivo e acustico, che ti toccava idealmente la gola. Si sentiva distintamente in platea l’odore della vita, non di una in particolare, ma di qualunque vita, si sentiva il distillato, fortemente alcolico, dell’umano, che trovava la sua ebbrezza dionisiaca nelle sue regie.

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