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Fool Blues – Recensione Teatro

in Teatro
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Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Fool Blues, uno spettacolo che restituisce quello sguardo attento e di sbieco della poesia, lo sguardo degli ultimi, quello di un clochard. L’interprete è Luca D’Addino accompagnato dal chitarrista Romeo Velluto. Il dramarturg è Simone Faloppa.

Un uomo e un microfono:  è la storia di un’intimità del’anima, di una presenza fonetica e di un’attenzione da parte dell’attore che decide di fare del suo verbo cosa salda. Tutto diventa fatalmente nitido e preciso di fronte a questo strumento, dove le parole si grassettano, diventano estremamente lucide, e monologhi fanno il filo a questa lama. Quell’asta esercita una forza di gravità devastante, come quella di un buco nero, e a essa non sfugge neanche la luce dell’anima, che riverbera le parole. Tutto questo l’attore Luca D’Addino lo sa, e non manca un appuntamento con il microfono, raccontando la poesia degli ultimi dei disperati, che, prima di essere una categoria sociale, diventano una categoria dell’anima. Se a tutto questo, poi, si aggiunge la chitarra di Romeo Velluto, allora il gioco è fatto. I fonemi diventano un talkin’ blues e si lasciano andare alla danza lenta, sensuale e suadente.

È un ¾ che racconta meravigliosamente che l’interprete loves his baby, ama la poesia del mondo, ma il mondo non lo ama. Si inventa una sorta di asta in cui proporre degli oggetti patafisici, degli objets trouvés di duchampiana memoria, per giocare con il reale, per ritrovare le divinità con cui, all’inizio della filosofia, Talete riempiva ogni cosa. Si divide tra il baule e il microfono questo interprete, che, al pari un metronomo, batte su stesso il proprio tempo scenico, trascinando lo spettatore verso il dettaglio di un primissimo piano. E in certi momenti in cui la bocca danza con il microfono un erotico tango, viene da chiedersi che cosa vedano quegli occhi, che cosa fissino. Al  pari di una Pizia, di un oracolo, non è più un essere che pronuncia delle parole, sono queste ultime a pronunciarlo, a manifestarsi da sé attraverso la sua bocca.

Immagine della recensione dello spettacolo Fool Blues

Un Apollo e insieme un Dioniso, persi sul ciglio di qualche strada, con la mano timida e restia di un Umberto D. nel chiedere la carità, vivono in questo attore, che fa della sua stessa voce un palcoscenico. Naviga letteralmente tra le note che lo accompagnano, cerca pervicacemente la sua Moby Dick, il suo avversario bigger than life, che si è consumato i polmoni con il catrame di qualche cicca di sigaretta. Il dramaturg Simone Faloppa è abile nel cucire questo vestito drammaturgico; ad aspirare tutto il fumo, giù giù, fino all’ultimo alveolo, di questa poesia che proprio non riesce a rinunciare del tutto al mondo che la deride. L’albatros di Baudelaire è diventato un clochard: il suo incedere claudicante è la versione umana di quel volatile che ha  ali meravigliose per volare, ma un paio troppo piccolo di zampe per muoversi agevolmente sulla terra.

Il veggente di Rimbaud, sfrattato da un monolocale di chissà quale periferia, guarda il mondo di sbieco, di lato;  ne vede distintamente tutta l’assurdità, e la racconta, per intero, senza sconti, a un microfono, a un psicanalista di metallo, che ha un setting perfetto,un distacco professionale dato dalla sua natura di essere inanimato. La poesia rimane un atto del fare, così come dimostra l’etimo stesso della parola: un pugno levato contro il cielo, un’anima che proprio non ce la fa  a stordirsi con le virtù papaveracee del quotidiano. Mentre il blues rende lo spettatore sempre più complice, gli permette di scoprire lo scomodo istinto voyeuristico di guardare dentro un’anima fino all’ultima oscenità, fino all’ultimo desiderio. Tira pugni fonetici questo interprete, tremendi, che fanno male, che ti lasciano barcollante sul ring, incerto se resistere o soccombere in un catartico ko. La verità è sulle nocche di quei fonemi.

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Si avverte il dolore di un’esistenza che non può e non deve rinunciare a quel dio della poesia che selvaggiamente lo abita, e regala al suo sguardo dei lampi fiammeggianti che bruciano al pari di lapilli sfuggiti a un fuoco. Ma quello che stupisce è il gianobifrontismo, l’oscillare abilmente tra il dramma e la tragedia, lo sgusciare di questo testo scenico da ogni categoria drammaturgica, il giocare con la platea una partita di seduzione, di vedo e non vedo spirituale, fino alla devastante rivelazione: il personaggio è il pubblico stesso, così come Flaubert ammetteva di essere Madame Bovary. Le frustrazioni, le rivolte, i soliloqui, monologhi che vanno dritto dritto al centro del centro del proprio nascosto essere, come una biglia di metallo su un binario di un piano inclinato, sono quelli di chi guarda e ascolta. Le parole risuonano come una eco.

Sono le stesse che abbiamo respirato. L’attore gioca bene la sua maschera, le sue maschere, le toglie una a una, come gli strati della cipolla del Peer Gynt, e quello che rimane alla fine è l’odore penetrante della poesia, il ricordo di un universale che persiste ostinatamente, tra gli odori della città,tra le clacsonate e lo smog. E il blues racconta benissimo questo mood, questa voglia a metà di piangere e di arrabbiarsi. La medicina aspra fa bene, e, per una volta, non ci vuole lo zucchero per farla andare giù: basterà una chitarra che ha fatto una patto con il diavolo, oppure con Dioniso, per far scivolare le parole senza attrito, per abradere, al pari di un giocatore di curling, l’aria ghiacciata tra la scena e la platea, e permettere così alle frasi di raggiungere il punto desiderato, il cuore dello spettatore.

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Strehler e gli angeli di Swedenborg

in Novità/Teatro
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Vi proponiamo un articolo che rende omaggio al Giorgio Strehler, il regista teatrale che ha portato gli angeli di Swedenborg sul palcoscenico. La sua opera rappresenta un cielo di stelle fisse che rimane come luminoso patrimonio del teatro del novecento.

Swedenborg vedeva gli angeli a Parigi; Strehler li vedeva, e li faceva vedere, sul palcoscenico. Il paio di ali erano le luci, i gesti, le parole. Dalla parte della platea si viveva tutto lo stupore e la partecipazione nei confronti di quella grande magia, di quell’abracadabra, che portava alla realtà l’universale della poesia. Non per nulla il suo stile è stato definito realismo poetico. In lui si agitava un daimon di socratica memoria, o, meglio ancora, una divinità che cercava di parlare attraverso la metafora dell’umano. Si collocava proprio lì, ai bordi dell’indicibile, sfidando la parola a rompere la trappola degli specchi, dell’eterno rimando a se stessa. Piuttosto il verbo strehleriano è sempre stato una freccia puntata contro il cielo, il pugno verso l’alto del Beethoven sul letto di morte, il gesto di Prometeo pronto a violare la legge di Zeus. È stato un alchimista dell’umanesimo.

Ha avuto la capacità di cercare pervicacemente, e di trovare, la pietra filosofale in grado di tramutare il piombo del prosaico nell’oro lirico. La parola umanesimo non è casuale, per un regista che si candida ad essere l’estrema propaggine di un sentimento rinascimentale, di una presenza umana collocata nel mezzo del cosmo e della conoscenza universale. L’eterno impasse della tragedia, la strada senza uscita, il cul de sac ha trovato, in lui, una soluzione alternativa. Se il meccanismo, di stampo musicale, di tensione e risoluzione, di hybris e dike, ovvero di ascesa e caduta, aveva dominato la scena da 25 secoli, ecco improvvisamente che un uomo di teatro trova il sistema di ingannare questo sistema, di modulare, come nei temi wagneriani, di cambiare tonalità, per dare l’impressione che l’apice sia sempre un po’ più in là. Il carretto dello spettacolo dei Giganti viene distrutto dal sipario alla fine dello spettacolo.

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E rinascerà sempre per la replica successiva. Basta risentire le sue interviste per avere il riscontro di un temperatura emotiva sempre alta, altissima, basta leggere le sue lettere battute a macchina per ritrovare, a ritroso, la forza delle dita martellanti sui tasti (è sufficiente chiudere gli occhi per immaginare quel frenetico ticchettare, quella ritmica verbale pronta a esplodere su una Olivetti), e, ancora prima, di un pensiero che ha l’urgenza di dirsi, di confessarsi a sé e agli altri. La vocazione di Strehler è sempre stata assoluta, la scelta di un mistico, di un anacoreta, di un monaco che non scende a compromessi, di un’Antigone che ha il suo assoluto, e che sia l’intero o il nulla. Vederlo in azione durante le prove equivaleva ad assistere a un moto perpetuo, ad un pendolo umano infaticabile che tracciava il suo movimento oscillatorio tra la platea ed il palcoscenico.

Era un infaticabile Arlecchino servitore di mille padroni, di mille attori, di mille personaggi. Guardava la scena portando in dote ai suoi occhi lo sguardo del bambino in grado ancora di stupirsi, di trovare una sorta di magia in ciò che lo circonda. Il fanciullino di Pascoli, le poesie dell’innocenza di Blake vivevano in lui e il suo teatro, ma anche lo sturm und drang, i dolori di Werther, l’incurabile ferita metafisica piantata nel più profondo della sua carne spirituale. Non stupisce il fatto che, a un certo punto, abbia non solo trovato la perfetta affinità elettiva con il personaggio di Faust, ma abbia sentito forte, imperativa, l’esigenza di incarnarlo, di interpretarlo. Quella luce azzurrognola, cilestrina, come la lettera evocata nei Sei personaggi, sembrava fatta apposta per esprimere immediatamente, senza mediazioni o metafore, il suo manifesto poetico, la sua invincibile voglia di trasumanare attraverso l’umano.

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Si tratta di una luce “numinosa” che apparentemente raffredda, ma in realtà porta ciò che rischiara in una dimensione altra, più alta, in un iperuranio messo lì per ricordare che l’essere umano è un crogiolo di universali, di idee e di passioni. Strehler trascolorava la realtà, il suo azzurro era quello dei quadri di Chagall, un colore magico,esoterico, un rito di iniziazione, la versione moderna, contemporanea, dei misteri eleusini, dei riti mitriaci, orfici, di un’estasi bacchica di tutto il sensorio. Ogni dettaglio non veniva trascurato, diventava un gioco frattalico, l’occasione per trovare un mondo nel dettaglio del mondo scenico. Nel suo modo di scrutare la scena dietro la severità dello sguardo, dietro il cipiglio da statua antica, da patrizio romano, si trovava certamente l’irrequietezza di un dio che offriva generosamente parti di sé, per lasciare spazio alla creazione. E della divinità viveva tutta l’inquietudine, l’archetipica malattia dello spirito sempre affamato.

Il suo Brecht rimane come la memoria indelebile di una tensione morale e politica che, finalmente, traguarda, senza maschere o nascondimenti, in una drammaturgia. Lo straniamento, la scelta anti-aristotelica, la necessità di aprire una continua dialettica hegeliana all’interno del testo, tra immedesimazione ed epicità, rappresentavano qualcosa che gli apparteneva. Bene si capisce l’entusiasmo del drammaturgo tedesco nel ritrovare, nel nostro regista, l’essenza stessa di quel modo di fare teatro. Strehler faceva incessantemente il filo al rasoio dei suoi spettacoli, ed era un piacere sentire, da spettatore, il freddo di quella lama, e insieme il brivido caldo che ti provocava quel metallo, visivo e acustico, che ti toccava idealmente la gola. Si sentiva distintamente in platea l’odore della vita, non di una in particolare, ma di qualunque vita, si sentiva il distillato, fortemente alcolico, dell’umano, che trovava la sua ebbrezza dionisiaca nelle sue regie.

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Gli ultimi sacerdoti di Dioniso

in Teatro
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Vi proponiamo una riflessione sullo stato del nostro teatro, e su quei teatranti che naturalmente si candidano ad incarnare gli ultimi sacerdoti di Dioniso, ovvero il nume tutelare del palcoscenico e della platea.

Dov’è Dioniso nel nostro teatro? Se ne sta più nascosto di Godot, e, a differenza di quest’ultimo, non si perita nemmeno di scusarsi per il ritardo. Il furore di Orlando, la pazzia di Aiace, sonnecchiano come il bonus Homerus. C’è un espressione che ritorna fatalmente dai numerosi aforismi di Nietzsche, tutt’ora con un filo tagliente, “virtù papaveracee”. Morfeo è di gran lunga la divinità più gettonata in questa era in cui il non essere amletico si riduce a una pastiglia di melatonina, o a un blando calmante. Con buona pace di Parmenide, e di Severino, se l’essere non si può negare, lo si può quantomeno stordire ed affumicare di intrattenimento. Quasi come se la coscienza stessa, la consapevolezza, fosse una malattia da cui guarire, e la reificazione non un orizzonte negativo di una realtà neanche così tanto distopica, quanto un obiettivo da raggiungere, da perseguire, da ottenere.

Sarà, per citare il cantautore Stefano Rosso, che a pensare troppo dopo viene fame, o forse che Cartesio ci ha lasciato come unica certezza il nostro dubitare, in fondo il cogito non è che una versione più sofisticata del monologo di Amleto. Eppure c’è chi si ribella alla ninnananna del “that’s entertainment”, c’è chi ostinatamente prova a essere artaudianamente crudele sulla scena, a sbattere l’anima contro al muro fino a farsela sanguinare, per far sentire agli spettatori l’odore dolciastro di quel liquido spirituale che scorre, inascoltato, nella nostra mesmerizzata umanità. Resistono al sonno, impavidamente, come i protagonisti di una nuova versione dell’Invasione degli Ultracorpi, non vogliono essere sostituiti dalla futilità, non vogliono tornare a guardare la parete 2.0 della caverna di Platone. Ci ricordano che c’è una irriducibile ribellione nel fare teatro, un’eresia nei confronti di ogni altro qualsivoglia credo. Guardano in direzione ostinata e contraria.

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Come sulla sedia  della terapia della Gestalt lo spettatore dovrebbe sentire scottare la poltrona su cui è seduto, dovrebbe imparare ad avvertirsi, e stavolta veramente, attraverso il voluto fastidio, la voluta impudicizia, irriverenza del palcoscenico. La noia tutto sommato diventa un’abitudine spesso, il piegarsi di un tempo, che dà l’apparenza di non passare, di una eternità di cartapesta, che consuma il suo sbadiglio quasi fosse l’incenso. Dov’è lo schiaffo, il pugno di Marinetti, la gragnuola di proiettili fonetici, blindatissimi, come quelli del soldato Palla di Lardo? Dov’è la voglia di tirar giù a sassate gli dei dal cielo, e farlo sanguinare delle nostre domande inevase, come e più della nostra carne mortale? Sopravvive in alcuni posseduti da Dioniso, la cui ebbrezza spirituale, artistica, è vista come potrebbe essere visto il matto del villaggio globale, con il suo berretto a sonagli che tintinna di bruciante pirandellinità.

Rifiuta la normalità, l’etimologica pietra squadrata, buona per costruire un muro, molto meno per trovare l’umano. Questi rari nantes in gurgite vasto se ne vanno con i loro pugni rimbaudiani per le scene, e le loro estasi tormentate, la loro possessioni dionisiache, sono viste, spesso, con diffidenza, altre volte con indifferenza, come se fossero crisi comiziali, cortocircuiti del giusto pensiero del mainstream, che deve arrivare nel mare magnum della banalità. Eppure le parole sono lì come pietre, pronte a far pesare tutto il loro tonfo sulla scena, a far gorgogliare tutta la loro liquida ferocia e spietatezza, come i pezzi umani ed il vino che gorgogliano nella bocca del Polifemo addormentato. Scoprirsi vivi e farlo ogni volta, per sempre, è compito grato, e insieme ingrato, dell’interprete, scoprire il pessoiano peso di dover sentire, inoltrarsi nel labirinto del linguaggio, e cercare di sfuggirgli con le ali della poesia.

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Ma la poesia teatrale torna all’etimo stesso di questa meravigliosa parola, è un fare, un continuo agire, d’altra parte ci era arrivato meravigliosamente Pirandello alla sintesi di tutto questo: “essere è niente, essere farsi”. Questa espressione è troppo spesso equivocata, ridotta la gioco dell’essere e dell’apparire, buono per il bignami, il riassuntone più banale per gli studenti. In realtà è l’intuizione forte quanto la nietzschiana volontà di potenza, l’imperativo che ogni buon teatrante dovrebbe sentire urgere dietro le sue scelte artistiche. Trovarsi dolorosamente sulla scena, nella verità di un parto fatto di grida e di umori scomodi, dovrebbe significare mettere al mondo la vita, e farle urlare tutta la tragicità della sua consapevolezza, facendo tremare le vene dei polsi persino agli dei. Con quanta selvaggia disperazione, ostinazione e passione questi Ulisse, orfani di un’Itaca, si abbracciano alle membra martoriate di Dioniso, le pongono sull’ara della scena.

Le bruciano, fanno salire il fumo prodotto dal grasso friccicante, ma si confrontano con l’anosmia della sala, con la difficoltà, se non a volte l’impossibilità, di sentire quell’odore che è vita allo stato puro, elevata a potenza, un vino degli antichi  non annacquato dal miele o da altra sostanza, che stordisce e insieme risveglia. Stare scomodi, provare disagio, dovrebbe essere la premessa per ritrovarsi di nuovo non solo in un teatro, ma nel luogo stesso consacrato alla divinità, come succedeva nel teatro di Dioniso. Abbiamo un disperato bisogno che sulla scena si moltiplichino le gambe di Woyzeck, che continuino a essere rasoi in grado di tagliare la pigrizia del nostro tempo, le certezze, di trovare sul metronomo esistenziale il “prestissimo” dell’inquietudine, e anche di tagliare la gola allo sterile io cartesiano, alle morali iperglicemiche, versioni oscene dell’etica, nonché al più banale e inflazionato “divertimento”.

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Rudy. L’ultimo Valentino – Recensione Teatro

in Recensione
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Ph Fabio Spagnoletto

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Rudy L’ultimo Valentino, la storia del mito del cinema raccontata attraverso le sue parole, i suoi pensieri. La drammaturgia, la regia e l’interpretazione si raccolgono nel nome dell’interprete Gianpiero Cavalluzzi, che regala un assolo intenso e struggente.

Rodolfo Valentino, già in forma calligrafica, così, immediatamente, assurge al mito, già nelle parole si sente il profumo di un’idealità che persiste come l’Arpege di una grande diva. Ed eccolo apparire, sul palcoscenico, nell’unico modo possibile di rappresentarlo, nella verità della sua anima, nelle sue confessioni agostiniane, nel flusso di una coscienza che capisce quanto sia difficile essere divinità per gli altri ed essere umano per se stesso. Se si immagina una trasposizione contemporanea di un personaggio della mitologia greca, un Adone, un Apollo, non si può che pensare che a lui, a quei fotogrammi che hanno strappato all’impermanenza di una singola vita l’universalità, se non l’eternità, del cinema. La drammaturgia, a cura di Gianpiero Cavalluzzi, anche interprete, è il risultato di un lavoro di alta sartoria drammaturgica delle parole di Valentino, vere quanto la realtà che ci aspetta appena svegli.

La freschezza di questo lavoro, il suo principale merito, è quello di evitare la trappola agiografica, di non creare piedistalli marmorei al personaggio, ma di offrircelo così, senza un filo di grasso retorico, senza rimaneggiamenti o glosse. Ecce homo, sta davanti al Pilato della platea, pronto a raccontare i dietro le quinte, i fuori scena, il veleno di qualche giornalista, che proprio non sopporta il serto di bellezza con il quale il suo pubblico lo ha impalmato. A vederlo così, nel suo costume iconico, figlio, più che dello sceicco, di una bellezza difficile da portare, ci si rende immediatamente conto di quanto sappia di sale, spesso, la fama, la notorietà. E quando si cambia indossando una frusciante, serica, vestaglia da camera, si ha l’impressione di osservare un Proust che si è rifugiato nella camera della scena, per raccontare minuziosamente, parola per parola, fonema per fonema, la ricerca del tempo perduto.

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Ph Fabio Spagnoletto

Cerca di fare quello che si fa in una sala di montaggio cinematografica, ovvero di ricostruire il film della sua vita, di recuperare, sulla pellicola della memoria, tutto il girato, tutto il faticoso piano sequenza del suo esistere. E se l’adagio di Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo” è veritiero, questo monologo sembra lanciare un interrogativo che fa da corollario a esso, “chi salverà la bellezza da se stessa?”. Gli dei devono sentirsi parecchio soli, e non fa eccezione il nostro Valentino. E non basta senz’altro un po’ di fumo del mito, sacrificato sull’ara delle sale cinematografiche, a restituirgli la serenità. L’attore efficacemente ci ricorda che più si è amati dalle moltitudini, più si perde l’abbraccio, l’individualità di un amore cercato strenuamente. Si forma quel muro, quel wall pinkfloydiano tra il divo e la sua platea, un processo di alienazione, che un buon scotch può perlomeno stordire ed attutire.

Proprio come fece Valentino ai suoi inizi in America, anche l’attore diventa per la sua platea una sorta di taxi dancer, in grado di far letteralmente ballare alla platea, ora un vertiginoso valzer, ora un passionale tango, ora un malinconico lento, dove confessare tutto l’amore lasciato lì, poco prima del ciak, o poco dopo. Quanta struggente melanconia c’è in questo spettacolo, e quanto l’interpretazione di Cavalluzzi diventa una timida, delicata carezza che tocca piano il viso di Valentino, perché ha paura di fare male al suo tenero ricordo. La sua recitazione ha la capacità di mostrare la doppia natura di cristallo di questo personaggio, la luce riverberante, ma anche l’estrema fragilità. Fa idealmente tesoro di quanto affermato da Rita Hayworth qualche tempo dopo questo Valentino: “pensano di andare a letto con Gilda, e poi si ritrovano con Rita”. Come nel teatro di Euripide, gli eroi non sono tutti d’un pezzo.

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Ph Fabio Spagnoletto

Non sono scolpiti nel marmo, ma sono fatti di fragilità, ripensamenti, contraddizioni, sono umani quanto noi, con la differenza di dover incarnare qualcosa di superumano. Alla fine appare evidente che sotto la seta dei suoi abiti, ce n’è un’altra altrettanto delicata, appena un soffio sotto la sua pelle. Non era facile trasformare i suoi baci iconici, i suoi sguardi languidi, le sue intenzioni devianti, sos nella bottiglia lanciati nell’oceano del suo pubblico, ma l’interprete ci è riuscito, si è fatto piccolo piccolo nella sua anima per lasciare il posto a quella di Valentino. Rincorreva, come tutti gli esseri umani, la sua felicità Valentino, ed era molto più complessa della trama di un suo film, ma forse era uno spazio silenzioso, inconsapevole di sé, come dovrebbe esserlo la felicità, nella sua infanzia a Castellaneta, in un vestito di un’eleganza senza fiato, in una promessa d’amore di un paio di occhi.

Il suo finale è arrivato troppo presto, ma, come da copione, per citare una canzone di De Andrè, come tutte le più belle cose. visse solo un giorno, come le rose. E quella divinità, così scomoda, che gli si attribuiva, chiedeva un prezzo troppo alto per diventare definitiva, la morte in giovane età, la cessazione della sovrapposizione di una biografia così distante, a volte, dalle cronache del mito. Con il suo incarnato d’avorio canoviano, con le mani gelide di una Mimì che raccoglie tutto il suo calore nel cuore, che offre con generosità al suo pubblico, con il suo passo leggero, con gli occhi gonfi di sogni e sentimenti, l’interprete si offre così, nell’eterno sacrificio del teatro. Per istante, per un meraviglioso lunghissimo istante, si ha l’impressione che Valentino sia davvero lì di nuovo, e per sempre, di fronte a suo pubblico, proprio un momento prima dei generosi applausi.

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Ph fabio Spagnoletto

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Shocking Elsa – Recensione teatrale

in Teatro
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Ph Emma Terenzio

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Shocking Elsa, dedicato alla figura della stilista Elsa Schiaparelli. Il testo è di Livia Castiglioni, interpretato da Maria Eugenia D’Aquino. La regia è firmata da Alberto Oliva. La produzione di questo lavoro teatrale è curata da PACTA. dei Teatri.

Je est un autre”, la frase di Rimbaud che riecheggia nella psicanalisi lacaniana, è un leitmotiv di questo spettacolo, la ricerca dell’identità, di quel quid, inafferrabile, immediato ed insieme indeterminato, che ci caratterizza. Lo cerca Elsa Schiaparelli, interpretata da un’efficace Maria Eugenia D’Aquino, che vive una vera e propria goethiana affinità elettiva con il personaggio. Si trova in una sorta di al di là, nel quale le porte chiuse di sartriana memoria diventano gli schermi di un programma televisivo. Se la carne si era contaminata e sublimata nelle immagini cronenberghiane di Videodrome, lo può fare anche l’anima in una sorta di spazio escatologico. Se la vita è tutta un quiz, lo può essere anche l’oltretomba, può trasformarsi in uno studio televisivo, e rispondere alle domande di una misteriosa voce fuori campo, può essere una pura formalità, anche se Tornatore ci ha insegnato che può essere molto di più di questo.

Rievoca la sua vita Elsa Schiaparelli, che preferisce far cadere l’ultima parte del suo nome, che prende in prestito la forbice delle Parche per regalarsi un destino diverso, e tagliare corto con le lungaggini. Le sue Madeleine proustiane sono dei semi con cui si riempiva la bocca da bambina nella speranza che potessero sbocciare e fiorire sul suo viso. Ama i surrealisti, è decisamente uno spirito dionisiaco, non può che trovarsi a suo agio nella teatro consacrato a Dioniso. E le parole diventano paesaggi, città, Parigi, New York, la Russia, le tappe, o meglio, i passi di danza esistenziale di una creatura che scivola sul mondo come seta leggera, ma che, contemporaneamente lo cambia per sempre. Come la scelta rivoluzionaria, contro corrente di quel rosa shocking che incombe dai fari alle sue spalle, di quel colore carico che vuole essere uno schiaffo marinettiano alle convenzioni, alle formalità, alle grigie abitudini.

Un colore può farsi rivoluzione, può diventare uno stendardo, qualcosa di molto simile al pennacchio di Cyrano, l’espressione più completa, sintetica, estremamente simbolica, dell’irriducibile essenza della propria individualità. Ha anche dei momenti struggenti questa Elsa, ha emozioni pronte a tracimare nella voce e negli occhi, il rapporto con il padre, con la figlia, con lo zio astronomo, attraverso il quale vorrebbe Marte come il Caligola camusiano vuole la luna. Vuole riuscire a rivedere le sue stelle, che ci ha mostrato attraverso le sue creazioni. Vive l’esperienza della guerra, rivive il rapporto con la nipote Marisa Berenson attraverso la relazione con le immagini pittoriche del film Barry Lyndon, e riesce nell’impresa impossibile di toccarle attraverso le sue parole, con la purezza della mano del bambino all’inizio del bergmaniano Persona, o come il regista del Truman Show che accarezza i pixel che compongono l’immagine dormiente di Truman.

Immagine della recensione dello spettacolo Shocking Elsa
Ph Emma Terenzio

Fa un buon lavoro il regista Alberto Oliva riuscendo a meticciare felicemente la dimensione mediatica dello spettacolo, lo studio metafisico televisivo, con un monologo intenso tutto carne e sentimenti. A volte sviene questa Elsa, cade come corpo morto cade, visitando il suo paradiso/inferno, ma è sempre pronta a rialzarsi, a sfidare gli dei con la sua irriverente, gioiosa hybris, e i suoi occhi, con buona pace della Clitennestra della Yourcenar son ben aperti sia nel piacere che nel dolore.  L’attrice è in una sorta di stato di grazia, sente e vibra, come la corda di un pianoforte, sotto i colpi del martelletto di questa biografia. Mostra la sua anima al pubblico, la sua lucente e fragile seta, come un bimbo potrebbe mostrarci la lucciola che tiene fra le mani. Suona uno spartito difficile, e la sua è una perfetta esecuzione. Sembra di incantarsi, nella sua voce, in ogni suo fonema.

È una composizione di Chopin che, sotto la meraviglia floreale, nasconde dei cannoni. Ma, osservandola ed ascoltandola bene, il tesoro più profondo, il regalo speciale donato alla platea, e fatto di piccoli grandi gesti, espressioni, risate che sembrano punti di sospensione, veli che coprono solo in parte, e lasciano intravedere la forma ineffabile dell’anima. È qualcosa di speciale, un’occasione preziosa quella di poter testimoniare questa punteggiatura interpretativa, che è essa stessa una drammaturgia, anzi l’inconscio svelato di una drammaturgia scritta intingendo idealmente la penna direttamente nel calamaio del cuore. Vederla seduta in mezzo alla scena, scoperta nel corpo e nello spirito da luci frontali e da controluci, o nella dolorosa e insieme fiera verticalità, equivale a partecipare alla creazione dell’ultimo vestito, l’ultimo modello, ricavato direttamente dalle linee curve, imprevedibili dell’anima. Elsa accetta il gioco di travestimento, di teatro nel teatro, e interpreta Coco Chanel.

Vive una sorta di sdoppiamento, di altro da sé, di alterità apollinea, distante anni luce dalla sua dionisicità, eppure in grado di completarla, di chiudere il cerchio anche con quella consapevolezza altra, nascosta, opposta al nostro essere, che battaglia incessantemente con la nostra coscienza. D’altra parte la coscienza per riconoscersi deve trovare uno specchio, un’altra identità per potersi riconoscere e identificare, magari per opposizione. La laringe del’interprete ad ogni “adesso” scenico batte il suono della verità, mostra tutto il modo di essere declinata, plasmata dai colori delle emozioni di Elsa. E se la musica bowiana, nel finale, ci ricorda che c’è vita su Marte, con altrettanta sicurezza, alla fine di questo spettacolo, si può affermare che c’è vita, eccome se ce n’è, anche sul palcoscenico di Pacta dei Teatri – Salone di via Ulisse Dini, nella potente interpretazione dell’attrice Maria Eugenia D’Aquino.

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Fly by me – Recensione Teatro

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Immagine della recensione Fly by me

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Fly by me, la fantastica storia degli inventori dell’aereo. I fratelli Wright diventano oggetto della drammaturgia di Carlo Della Santa, che è anche l’interprete di questo testo. Questo lavoro è stato pensato e realizzato nella duplice modalità online e onlife.

Carlo Della Santa è un attore che letteralmente prende il volo. Prende un fiato, e lo prende lungo come se lo aspettasse una lunga apnea, e sembra che quello stesso fiato duri più di un’ora. In quel vento d’aria fa volare tutta una lunga serie di fonemi, e non c’è un momento in quel volo in cui manchi la luce di un sorriso. Il teatro di narrazione a un certo punto deve farsi azione, deve fare di un corpo cento corpi, un’intera scenografia, deve diventare la carne di una storia, o la ciccia,  per omaggiare la terra Toscana dell’interprete. E l’attore riesce a fare tutto questo, riesce a trasformare una storia che giace in qualche scaffale di libreria, in una drammaturgia che ha l’argento vivo addosso, che ti travolge in un girotondo che non puoi idealmente fare a meno di condividere con chi si trova sulla scena.

Non si tratta semplicemente di un monologo, ma di una cucina di creatività, dove senti il profumo delle parole, lo sfriccichio  dell’olio della comicità, e due mani che sembrano impastare il racconto, che sembrano volerne restituire tutto quanto il percepibile possa offrire. Riesce in una fondamentale impresa, ossia quella di ridonare la forza della vita a due nomi, quelli dei fratelli Wright, altrimenti costretti nello spazio angusto di un libro o di una targa commemorativa. Carlo si dipinge, con ogni gesto ed ogni parola, le mani e la faccia di blu, e ha negli occhi la febbre del volo, ha un paio d’ali che sono tutte lì, in un corpo e in una laringe che potrebbe timbrare tutti i nomi del cielo. Ma non si ferma a questo, dalla sua recitazione tracima l’entusiasmo, la necessità, e, diciamo pure, l’urgenza del raccontare come gli antichi aedi.

Immagine della recensione dello spettacolo Fly by me

Riesce a ritrovare quella dimensione magica, misterica, magnetica, ipnotizzante della parola, che Freud ha ricordato nei suoi scritti. Ti porta sulla sua giostra l’attore, e ti verrebbe voglia di restarci per molto più di un’ora. Non si limita a raccontare i tentativi di un volo, ma lo diventa, anzi le sue braccia spesso diventano quasi gli arti di un volatile, e l’aria se la trova tutta lui, quanta ne possono offrire i suoi capienti polmoni. In mano, nascosta da qualche parte, come un abile prestigiatore, tiene la ghianda di Hillman, quel daimon, quella forza, quella predeterminazione, quel destino che spinge i due fratelli a vincere l’impossibilità umana del volo, e parallelamente, a portare l’attore a interpretare una storia con tutto se stesso. Plauto ci ricorda che non è facile volare senza ali, eppure l’interprete ci riesce, eccome se ci riesce, fin dal primo tentativo.

Alterna il racconto della propria passione giovanile per una ragazza dai capelli rossi, e riesce a reinventarsi la slapstick, la comicità del cinema muto, la cartoonistica abilità di vedere il suo corpo aprirsi, flettersi oltre misura, compiere l’impossibile che potrebbero compiere i Tom e Jerry di un cartone animato. E subito torna lì, a quel cruccio, a quella voglia di due fratelli di superare la sindrome di Icaro, di fare del cielo un’ulteriore strada da percorrere, un posto dove non dimorino più i desideri, ma la realizzazione degli stessi.  Non c’è parola dell’attore che non sia più leggera dell’aria, che non diventi la piuma di Forrest Gump, pronta a passare, dispettosa, curiosa, affascinante, sopra i nasi degli spettatori. E come sono piacevoli le “bischerate” con cui condisce il racconto, ricordandoci che la commedia sta sempre lì, da qualche parte, in ogni situazione, pronta ad essere presa,

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Ed un sorriso, regalato o provocato, è un ottimo viatico della comunicazione, è un po’ come prendere per mano chi ti sta ascoltando, è un po’ come fare sentire il calore della propria presenza. E c’è qualcosa di tattile in questa voce, come la volontà di dare una mano in regalo ai fonemi, una mano in grado di toccarci. C’è la volontà chiara di avere una platea viva, vitale, di scaldare la temperatura emotiva della sala. La crosta di questo pane teatrale toscano scrocchia e lascia poi il posto ad una mollica dolce, arrendevole, che chiede soltanto di essere masticata dallo spettatore. Con la rapidità di un Fregoli, il protagonista diventa ora un affabulatore, ora un comico da stand up comedy, ora un testimone innamorato della storia che racconta, ora un funambolo in perfetto equilibrio tra la serietà e la risata. Certamente  ascolta i suggerimenti della Musa della commedia Talia,

Sa che anche la risata, al pari della tragedia, ha la sua forma di catarsi. Fa piacere riscontrare quanto sia riuscito l’esperimento drammaturgico di costruire un teatro didattico che mantenga tutta la sua anima. Tutto questo Carlo riesce a farlo con una naturalezza estrema, un risultato che non è mai agevole da ottenere. Nel suo viso sembra racchiusa tutta quella toscanità vitale, piacevolmente irriverente di un Cecco Angiolieri che non faceva mistero di prediligere: “Le donne, la taverna e ‘l dado”. Governa lo spettacolo con la stessa sicurezza con cui i fratelli Wright governavano i primi aerei. D’altra parte, come ci ricorda Leonardo, chi ha provato il volo continuerà a camminare guardando il cielo, perché là è stato, e là vuole tornare. E questa sensazione è condivisa dalla platea, che si porta in tasca un po’ di quel cielo in cui ha volato insieme all’attore, per una meravigliosa ora.

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