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VERLAINE+RIMBAUD – Recensione Teatro

in Teatro
Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

Nell’ambito della rassegna teatrale di Pacta dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo VERLAINE+RIMBAUD (Un’ora all’Inferno con te) di Maddalena Mazzocut-Mis, dalle liriche di Verlaine e Rimbaud, interpretato da Alessandro Pazzi ed Edoardo Rivoira. La regia è curata da Annig Raimondi, e la voice off è quella di Massimiliano Zavatta. Diciamolo subito, questo spettacolo, con il piglio di un Antigone, vuole raccontare l’assoluto, quell’universale che gronda dal verso poetico, dalla poesia simbolista, e lo fa passando attraverso il corpo e la voce dei due interpreti. Fin dall’antichità gli esseri che sono scelti dagli dei per diventare la loro lingua umana, per tradurre le loro parole, sono condannati ad una irriducibile diversità, ad una malattia metafisica cronica che gronda anima. Rimbaud e Verlaine, attraverso la loro presenza, sono, prima di tutto, la loro corporalità, che diventa una sorta di coreografia, perché il corpo è già un primo segno grafico, una calligrafia che scrive faticose parole esistenziali. Sembrano gli ultimi pezzi di una scacchiera, i due re che ostinatamente continuano una partita, la quale non può che risultare patta, lo scaccomatto, semmai, se lo daranno autonomamente. È la storia di un “odi et amo” catulliano.

Esprime una liason che non può che essere dangerouse, perché ha come terzo amante la poesia stessa. La luce taglia a rasoiate lo spazio, lo fa sanguinare, cerca l’altro, si sforza di far intuire paesaggi diversi, metafisici. E quel busto in scena racconta benissimo il senso si straniamento, di solitudine del poeta, che, al pari dell’albatros di Baudelaire, quando è costretto a muoversi sulla terra, tra la prosaicità della vita, caracolla goffamente, magari, similmente a Rimbaud, cercando nell’Africa del “hic sunt leones” un inconscio kurtziano, un cuore di tenebra con cui poter regolare finalmente gli ultimi conti. In fondo la loro coppia rappresenta l’eraste e l’eromene, l’antico amore didattico tra il giovane e l’uomo maturo. Ma qui ad insegnare il caos di Dioniso sembra essere Rimbaud, che dell’Alcibiade del Simposio ha l’ebbrezza procuratagli da una bottiglia di assenzio, e Verlaine di Socrate ha la tentazione di sorseggiare la cicuta.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

Spera di poter guarire definitivamente dalla malattia esistenziale. Ed intanto si parlano con le loro poesie, che, attraverso la voce fuori campo, vivono anche nell’originaria lingua francese, ed è una piacevole scoperta quella di poter assaggiare la matericità di questo suono. Non è un caso che lo specchio, sia esso un piccolo cerchio, o uno grande in grado di abbracciare l’intera figura, incarni la presenza scenica in grado di diventare l’irresistibile forza di gravità per i due personaggi. Questo oggetto mi ricorda i versi letti alla Lady Lyndon cinematografica: “Les coeurs l’un par l‘autre attirés/se communiquent leur substance/ tels deux miroirs ardents…”, i cuori si comunicano la loro sostanza come possono fare due specchi ardenti, i due poeti si trovano e si perdono nel gioco dell’identità dello specchio, che ci restituisce insieme l’identità e l’altro. Lo specchio rimanda etimologicamente al “guardare”, è l’oggetto atto a guardare ed insieme a guardarsi.

Diventa l’antico strumento fiabesco delle proprie brame, lo interrogano su chi sia la più bella del reame, ma la risposta invariabilmente è: “la poesia”, e la vita è condannata ad essere la prosa, la eco di una luce superiore, di un’illuminazione che riposa sul foglio. È brava la regista Annig Raimondi a creare una sorta di coreografico e delicatissimo pas de deux, dove i corpi stessi dei poeti diventano simbolo, si cercano, si trovano, si respingono, ma non riescono ad allontanarsi definitivamente, si danno significato reciproco attraverso questa dolorosa dialettica. Per raccontare i vasti orizzonti metafisici del panorama poetico dei due personaggi, riesce a straniarli, riuscendo nell’impresa di vestire Brecht della seta della poesia simbolista. Torreggiano sulla scena, danno senso allo spazio intorno a loro, costruendo continue distanze, geometrie dinamiche. Giocano coll’allontanarsi/avvicinarsi come l’Hans freudiano fa con il suo rocchetto.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

E davvero il loro gioco serio e tragico, va al di là del principio dl piacere, ed ad un certo punto il rocchetto diventa il grilletto della pistola di Verlaine rivolta contro Rimbaud, la tentazione della “mortido”, Thanatos strattona decisamente Eros, e fatalmente lo fa cadere. Alessandro Pazzi, l’interprete di Verlaine, riesce a graffiare ed accarezzare con i suoi fonemi, si lascia abitare dalle parole, fa decisamente percepire allo spettatore quanto sia dolce naufragare in questo mare. Più che l’anima di un singolo personaggio incarna quella delle liriche, s’immedesima nel verso diventando una sorta di Pizia, di oracolo posseduto da una voce divina. Si avverte tutta l’urgenza non di limitarsi ad interpretare la poesia, ma di essere quella luce lirica, fonema dopo fonema, gesto dopo gesto. Edoardo Rivoira è un perfetto Rimbaud che esprime nella sua vocalità i suoi pugni nelle tasche sfondate.

La sua dinamite anarchica nei confronti di un mondo farisaico, troppo piccolo per contenere la sua poesia, si incontra e si scontra con Verlaine, diventa un suo doppio, incarna il Dioniso che intossica il suo amante poeta. Ma soprattutto parla con il corpo, ne fa una sorta di pietà scultorea, di estremo verso poetico scritto, inciso, nella carne, nei muscoli, nei nervi  e nei tendini. I due poeti passano la loro stagione all’inferno, ed il grido per le ustioni di quel calore diventa la loro poesia. Come i personaggi di Sartre sanno che l’inferno sono gli altri, ma nel gioco dello specchio comprendono che quell’inferno è l’immagine che l‘altro rimanda di se stessi. E sugli applausi finali, caldi e particolarmente generosi, idealmente riescono, insieme agli spettatori, a rivedere le loro stelle.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

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Odisseo racconto di un’ePOPea – Recensione Teatro

in Novità/Teatro
foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Odisseo racconto di un’ePOPea, recitato dall’attore Carlo Decio, e diretto dal regista Mario Gonzalez. il lavoro rappresenta l’occasione di restituire al personaggio omerico tutta la sua umanità. Quando l’attore ha l’urgenza di raccontare una storia, quando le parole sono una pittura materica, diventano non delle pennellate, ma il disegno stesso delle dita intrise di colore sulla tela della quarta parete, si guarda e si ascolta la vivacità di quel quadro come si guarderebbe una tigre dipinta da Ligabue. Sembra che i nervi, i tendini, ed i ritmi cardiaci siano la stessa vocalità cromatica, che vive una vita propria, che sfida in vitalità il corpo stesso che la abita. La storia di Odisseo sembra fatta apposta per accendere la miccia, per dare fuoco alle polveri, per narrare il racconto dei racconti, quello dell’uomo inviso agli dei, che scrive la sua tragedia da un luogo all’altro, che ne piega il finale, che sfida gli dei laddove la sfida sembra più impossibile, sul terreno della conoscenza, del sapere.

Carlo Decio, l’interprete, ha il merito, di immergere fino al tallone ed anche oltre, il suo personaggio nell’umanità, ne mostra la carne emotiva, la ferita interiore che fatalmente brucia, sferzata dall’acqua salata del mare. Ed il centro della sua narrazione in grado di farsi corpo, di plasmarlo in paesaggi, personaggi, rumori, è una bocca, e che bocca. È Cariddi, un vortice, un gorgo, che ci risucchia nell’attenzione e nell’ascolto, circondata da una barba rude, aspra, come certi paesaggi della macchia mediterranea, ed i denti  sono gli scogli dei mille approdi, della petrosa Itaca. Sembra la bocca dell’album dei King Crimson che tutta contiene le traversie di un lungo viaggio, dei pericoli, delle paure, delle speranza, è la bocca di Polifemo che rigurgita vino e carne umana, ma anche maledizioni contro il suo accecatore. È l’erede ideale degli aedi, degli antichi cantori, ma è anche una marionetta biomeccanica, un mimo.

Foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

Diventa un mostrarsi di corpi in un solo corpo. Ma, più di tutto, è generoso l’attore con il suo racconto, ci versa dentro, pieno raso, tutto il vino della sua anima, e lo fa bere agli spettatori, tutto d’un fiato. Ed i suoi fiati sono lì, tutti pronti a gonfiarsi come l’otre di Eolo, per contenere tutte le parole, anche quelle che non ci sono, o che potrebbero esserci. In certi momenti, visivamente, ricorda una sorta di uomo vitruviano, che mostra come si possa trovare la quadratura del cerchio, come Dioniso ed Apollo, ragione e sentimento possano mostrarsi in una meravigliosa sovrapposizione. Gli si sente addosso l’odore di certi palcoscenici di strada, quelli ricavati da qualche tavola di legno, quelli in cui devi proprio spremerlo tutto il muscolo cardiaco nelle parole per catturare l’attenzione. Ha la forza trascinante del giullare.

Possiede l’energia di chi può permettersi di raccontare l’uomo perché ne conosce bene il ventre, gli è più vicino della sua stessa giugulare. La narrazione slitta fatalmente in azione ad ogni istante scenico, si lascia sostanzializzare dalla carne dei personaggi. Lui viaggia attraverso terre pericolose, affascinanti, terribili, e lo spettatore viaggia nelle parole e nei gesti, nelle capriole, nei lazzi, di questo zanni, di questo efficacissimo Arlecchino omerico che, idealmente, ha tante toppe colorate quante sono le sfumature del suo racconto. Cucina la sua storia, come un cuoco potrebbe impastare la farina, stendere la pasta, assaggiare la sua creazione in fieri. Ci invita tra i fornelli del destino di Odisseo, e ci mostra quanta sia facile scottarsi, o tagliarsi, ma anche avere la possibilità di degustare dei piatti prelibati. Sembra una riuscita sovraimpressione della danza fisica, sciamanica, a piedi nudi, di uno spirito della terra, di un Calibano.

Foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

Ed insieme esprime quella eterica, leggiadra, arabescata, di uno spirito dell’aria, Ariel. E davvero tutto il suo corpo è un meccanismo scenografico in perenne movimento, un periatto che, ruotando, mostra scenari ogni volta diversi, e, senza neanche accorgersi, ecco che lo spettatore è già entrato nella magia dell’abracadabra del racconto. Passa, come solo un bambino è in grado da fare, dalla rabbia, alla gioia, al dolore, alla sorpresa, ed ogni volta con lo stesso stupore, ogni volta come se fosse la prima volta. La sua voce ricorda le mani di certi scultori del legno, mani vissute, grattate, che portano i segni dell’eterna battaglia per vincere la materia, e cavarne fuori l’opera. E quando abbraccia l’ombra della madre morta e rivista nell’Ade, tira fuori dalle tasche tutta la semplicità, tutta la naturalità di un sentimento che è immediatamente lì.

Verrebbe voglia di abbracciare questo Odisseo, di consolarlo. La fallacia di Ulisse diventa la sua forza, gli errori, i ripensamenti, tutte le debolezze ce lo tirano giù dalla teca museale del mito, e ce lo rendono un amico che si accende mentre ci narra episodi della sua vita. Per lui sono valide le parole di una poesia di Brecht, “tu non avevi nessuna debolezza, io ne avevo una, amavo. E quel “tu” potrebbe essere la risposta beffarda, ideale che il personaggio rivolge agli dei. In fondo il fatto di essere perseguitato dalle divinità, gli permette di sviluppare una muscolatura interiore, spirituale, di esercitarsi in questa sfiancante ginnastica psichica, emotiva. Quando abbraccia Penelope, e quell’abbraccio non è chimerico come quello con il genitore, ritrova la freccia più appuntita in grado di bucare l’invulnerabile corpo degli dei.

Foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

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Ultima notte Mia – Recensione Teatro

in Teatro
Foto della recensione Ultima notte mia

Nell’ambito della rassegna Teatro 2.0 Live Streaming vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Ultima notte Mia, un omaggio alla grande cantante per cui “non finisce mica il cielo”, ma continua nella voce, scritto da Aldo Nove, e diretto dal regista Michele De Vita Conti. A vederla torreggiare, fiera, su un letto, questa Mia Martini, magistralmente interpretata da Erika Urban, sembra di vedere un antico personaggio della tragedia greca. Ecco che fa mostra di sé una Cassandra che sa bene quale sia il prezzo di essere una favorita degli dei, ma anche quello di non voler mercanteggiare o scendere a compromessi per la loro benevolenza. L’una è condannata a non essere creduta, l’altra a un’ottusa, irrazionale, superstizione, ad una diceria dell’untore, al gioco tragico della sfortuna. Come calzano bene i coturni tragici sui piedi di Mia, e come affronta con la dignità di una Antigone il suo destino, e a ogni doloroso sorriso sembra dirci: “nacqui a legami d’amore e non d’odio”. E persino gli dei, gli stessi che ostinatamente cercano di fare deragliare il suo destino, rimangono in silenzio, come il pubblico di una partita a tennis.

E qui, al posto dello schiocco della palla sulla rete della racchetta, si sente quello della lingua. La protagonista non si limita a raccontarsi, si spreme letteralmente l’anima in ogni fonema, batte ogni sillaba di emotività, la sua tastiera interpretativa non perde una singola lettera, anche sotto il diluvio delle dita cardiache. È instancabile, e soprattutto, è sempre lì, esattamente nella battuta che pronuncia, nel presente di ogni istante, non manca un solo appuntamento emotivo con il testo. E poi ci sono gli sguardi, certi sguardi che diventano come dei punti di sospensione, come dei momenti in cui, mentre la parola tira il fiato, l’anima si mostra senza mediazioni. Guarda in macchina e sembra avere l’intuizione dello sguardo degli spettatori, guarda tutti noi, e si ha la netta impressione che quegli occhi pronuncino la stessa frase pirandelliana tratta dai Sei personaggi: “Ma quale finzione, realtà!”.

Foto della recensione Ultima notte mia

Tutto si incastra alla perfezione, tutto si combina meravigliosamente, il testo scritto da Aldo Nove, la regia di Michele De Vita Conti, e l’interprete Erika Urban, ogni tassello va al posto giusto e compone il ritratto di una grande interprete della canzone italiana. Questo monologo è molto di più di una storia di una vita artistica, è il viaggio attraverso una vocazione, il bisbiglio del daimon socratico che ad ogni passo sussurra alla protagonista: “Canta e fallo come sai fare tu”. Non capita spesso di vedere una vita raccontata così naturalmente, in grado di rinfrescarti come può fare l’acqua di fonte sul viso. Per fare un testo scenico basta un letto ed un sorriso vestito di un’anima che è lì per ricordarci quanto sia importante conquistare la propria storia, e , in definitiva, se stessi. Erika ha la capacità di entrare in una speciale intimità con lo spettatore.

È come se ci trovassimo tutti lì, sotto le coperte, per ascoltare quella storia che, per dirla alla Breil, è riuscita ad invecchiare, senza diventare adulta. Ha l’argento vivo di una bambina, di una Zazie nel metrò questa Martini, ed anche quando la voglia di piangere sarebbe lì, a meno di un fiato dalla guancia, c’è sempre pronta una fanciulla che ha una voglia matta di cantarcela questa vita. E d’altra parte il discorso quando si riempie raso di emozioni, non può far altro che trasformarsi in canto. L’attrice riesce in un vero e proprio miracolo, vale a dire quello di far sentire nelle sue battute, la musica di Mia, di farci odorare il profumo delle intenzioni di un canto che sottende tutto questo monologo. E poi c’è il racconto dell’arresto, il momento in cui le viene marchiata a fuoco la lettera scarlatta della porta-sfortuna, il problema con la voce.

Foto della recensione Ultima notte mia

E dopo segue il calvario delle operazioni. Tutti questi sono ostacoli che la protagonista supera ogni volta con tragica potenza, perché la stessa voce lirica dell’Andrea Chenier che ricorda che “nel dolor può venire l’amore”, è la stessa che parla, che stimola, che sferza la cantante. Ci si incanta letteralmente ad osservare la purezza di questo diamante luminosissimo che accende di luce anche questo testo teatrale a lei dedicato. Ma l’immagine che più ci rimanda l’essenza stessa di questo personaggio, il centro del centro del suo essere, è quella di lei accovacciata sul letto che indossa un paio di cuffie, c’è solo lei e la sua musica, è l’Arianna con il suo Dioniso, in grado di restituirci una danza frenetica, ma immobile, la passione che l’ha accompagnata per tutta la vita costante quanto la stella polare. La musica l’ha sollevata per tutte le volte che è caduta.

Questa forza vive, con la magnifica sovrimpressione dell’immedesimazione, che si riflette nelle sovraimpressioni delle inquadrature, anche nell’attrice. Alla fine l’impressione che si ricava e che Mia sia molto di più che un personaggio, Mia è una categoria dell’anima, che finalmente ha trovato un nome ed una voce. Se ci si chiedesse dove finisce l’una ed inizia l’altra non si potrebbe rispondere, è questa è la più efficace cartina di tornasole di quanto il gioco serio della recitazione sia riuscito, abbia colto nel segno. Deve esserci per forza Dioniso come nume tutelare di questo spettacolo, che ha il sapore degli dei della Magna Grecia, e in quella terra è nata Mia. Lo spettatore si alza da tavola, per così dire, con l’appetito, con la voglia di avere ancora degli sguardi, delle parole di questa Mia che sa raccontarci benissimo quanto “la gente è strana, prima si odia e poi si ama”

Foto della recensione Ultima notte mia

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A proposito di lei – Recensione Teatro

in Novità
Foto della recensione A proposito di lei

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo A proposito di lei, di e con Monica Faggiani e Silvia Soncini. La supervisione drammaturgica è curata da Tobia Rossi. Due figure femminili si specchiano l’una nell’altra.

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Il più grande spettacolo del mondo – Recensione Teatro

in Teatro
Foto recensione Il più grande spettacolo del mondo
Ph Elisabeth Petrone

Nell’ambito degli eventi in digitale previsti dal Teatro della Contraddizione vi presentiamo la nostra recensione de Il più grande spettacolo del mondo, un lavoro scritto e diretto da Stefania Apuzzo. Gli interpreti sono Francesca Biffi, nel ruolo della donna cannone, e Luigi Guaineri, in quello di direttore del circo.

C’è una frase di una poesia di Quasimodo che torna alla memoria, in occasione di questo spettacolo, che viene la voglia di tastare, di sentire urgere idealmente sotto le dita, come un mazzo di chiavi fatto girare insistentemente nella tasca: “… nel peso di una vita / che sapeva di circo. Ecco questo lavoro riesce a far sentire tutto il gusto del più grande spettacolo del mondo. Sa di cinnamomo, di biscotti allo zenzero, ma anche di erbe amare, di tarassaco, di quell’agro vivere che è lì, appena sotto il cerone ed il trucco pesante. È stupefacente vedere come Sartre, Camus, e tutto l’esistenzialismo, quello scritto, con la penna dell’autenticità, stia tutto in questa pista del circo, concentrato in due personaggi, un everyman ed una everywoman di una contemporanea morality play che ha in tasca la caustica frase di Muller: “È fatale che la storia non abbia una morale”.

Una donna cannone, che tracima anima dalle labbra, ci racconta ciò che è per se stessa, quel silenzio rumoroso che è lei stessa, il tentativo di esprimere il proprio essere ferita, mancanza. Non le basta una testa, ce ne vogliono tre, due pensieri soprannumerari che inseguono pascalianamente le ragioni del cuore, due compagni di banco di una nuova classe kantoriana. Pare di sentire il gocciolio estenuante delle sue caverne cardiache, dei suoi atri, dei suoi ventricoli. Si stupisce del mondo quanto lo può fare un angelo. Basta il suo sguardo per scoprire la curiosità viva, un po’ malinconica del bambino che conosce le verità per istinto, in quel territorio non ancora recintato dalla parola. Rappresenta l’incarnazione delle parole liriche di Handke, lei che sa  “tutto ha un’anima e tutte le anime sono un tutt’uno”, il suo tempo è giusto lì, nell’istante esatto quando il bambino era bambino.

Foto della recensione Il più grande spettacolo del mondo
Ph Elisabeth Petrone

Si ha l’impressione di trovarsi davanti ad un sogno azzurrognolo uscito da un quadro di Chagall, e bisogna fare attenzione a tenerlo fra le mani, perché è delicato quanto una bolla di sapone. Ecco il primo piano di una piccola grande cosa gozzaniana, che cammina nel mondo senza fare troppo rumore, per non disturbare, che ci accarezza delicatamente con le parole, perché ha paura di farci male. E poi c’è il direttore del teatro, con i suoi colori carichi, presi in prestito da un quadro espressionista, cammina sui trampoli, cerca di essere bigger than life, cerca di passeggiare con disinvoltura sui questi tragicomici coturni. Forse vuole avvicinarsi un po’ di più alla sua Luna, sperando di afferrarla, o almeno di arrivare al suo simulacro, ad una luce cerulea, la goccia di un colore strehleriano, che forma una stalattite di poesia luminosa.

Indossa la sua maschera di durezza, di autorità, il copione gli ha dato il ruolo del padrone di Hegel, che ha lo specchio della donna cannone per conoscersi. E, visto nella vicinanza di un primo piano, o nella magia del sonno, così da vicino, si scopre la sua aria da bambino, la sua fragilità, si scoprono due occhi grandi di un quadro di Margaret Keane, che si allargano per contenere il cielo e tutte le sue nuvole. Le vere protesi per potersi muovere nel mondo gliele dà un’altra anima, quella della donna cannone, che ha visitato le stelle e gliene porta notizia. Sono una coppia di clown, il bianco e l’augusto, l’apollineo ed il dionisiaco, le due metà dell’essere androgino evocato nel Simposio, che hanno, nelle intenzioni dietro le loro battute, il tenace desiderio di toccarsi, di abbracciarsi, di baciarsi.

Foto della recensione Il più grande spettacolo del mondo
Ph Elisabeth Petrone

Com’è struggente la scena in cui sono a meno di un fiato dal baciarsi, ma le protesi di lui, le teste di lei, gli ingombri sono lì a mettersi d’ostacolo, mentre il desiderio delle loro anime è chiaro. La regista Stefania Apuzzo, che ha regalato anche alla drammaturgia il profumo della sua anima, trova nel circo, ed in questi due personaggi, il territorio migliore per raccontare l’essere umano, l’animula vagula e blandula, la voglia, il desiderio di farsi crescere un paio di ali angeliche con le piume delle parole. Ed il circo sembra fatto apposta per esplorare quella linea di pericolo, la sfida funambolica in equilibrio sulla morte o sulla follia. Ci vogliono tutti i vestiti sgargianti, le parole timbrate, a volte un po’ straniate, brechtiane, per reggere una vita da mediano, a recuperare palloni, a giocare fino al fischio finale, facendo finta di regalarsi l’imperturbalità degli dei.

Invece dietro la faccia infarinata, c’è un’anima delicata quanto il bozzolo del baco da seta. Francesca Biffi soffia tutta l’anima nei suoi soffiati, ma propria tutta. Mostra quanto in realtà sia sottile come una piuma la natura di questo personaggio, fatta di polvere di stelle impastata con le lacrime. Mangia popcorn e lacrime, sincera e reale quanto il vento che sferza il viso. Luigi Guaineri è un direttore che cerca di muoversi in linea retta, come da contratto etimologico, se la impone con la protesi dei trampoli, ma la linea spezzata, l’irrazionale sono le intenzioni devianti, i necessari attentati che il sogno fa al suo apparente pragmatismo. Il tableaux vivant di una pietà pittorica, dove il direttore diventa un povero cristo e la donna cannone una madonna, è il momento dove l’ala dell’angelo fa cadere definitivamente il cristallo della prosa, e noi spettatori vediamo il frame definitivo della poesia.

Foto della recensione Il più grande spettacolo del mondo
Ph Elisabeth Petrone

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Un atto d’amore – Recensione Teatro

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Foto recensione spettacolo Atto d'amore

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Un atto d’amore, recitato dall’attrice Diana Ceni, e diretto dal regista Alberto Oliva.

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Otello – Recensione Teatro

in Teatro
Foto dello spettacolo Otello
Ph Angelo Redaelli

Nell’ambito della rassegna shakespeariana “Tutto il mondo è palcoscenico” del Teatro Carcano, caricata sul loro canale youtube il 03 di aprile, e disponibile gratuitamente per una settimana, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Otello, ideato e recitato da Davide Lorenzo Palla, diretto da Riccardo Mallus, con la partecipazione musicale degli Ottavo Richter.

Quante parole ci possono stare in un fiato? L’attore Davide Lorenzo Palla risponde a questa domanda con la sua recitazione, prende una bella rincorsa, inspira forte, e riesce a farci stare tutto un testo shakespeariano, sembra che ce l’abbia davvero una musa di fuoco ad infiammargli lo sguardo, ed a scaldargli le battute. La sua è una dattilografia verbale implacabile, ed ogni fonema è battuta con forza e determinazione sulla Lettera 22 della laringe. Sentirlo recitare equivale a vivere la magia di vedere trasformarsi un palcoscenico un regno, ha il sapore sonoro di certi temporali estivi, in cui i goccioloni sempre più veloci e frequenti diventano parole leste, messaggeri che mettono le ali ai piedi, e ti viene la voglia di metterci la testa sotto a quel diluvio di parole, per sentirne la confortante frescura. Si mostra col suo tricorno da corsaro, da pirata della filibusta, con il sorriso canagliesco.

Con la voglia di far correre l’anima all’interno del testo, fin quasi a farle scoppiare il cuore, si mette davanti agli spettatori, e diventa, non un cantastorie, ma il cantastorie. L’unico possibile in quel momento,  il solo che possa aprirsi come un sipario, per mostrare la tragica storia del moro di Venezia. E proprio come tutti i cantastorie che lo hanno preceduto, porta su di sé la polvere delle strade  a cui chiedere quali storie narrare, e come raccontarle, così come le racconta il vento. Ha il chiasso delle osterie nella sua vivacità scenica, la voglia invincibile di raccontare una storia, e, per scriverla alla Baricco, finché c’è una buona storia da raccontare, finché una diva può cantare l’ira di Otello e dei lutti ad esso collegati,  non si è mai fregati. Non si conosce come un singolo, ma, alla maniera di Pessoa, come un pieno orchestrale degno di essere ascoltato.

Foto dello spettacolo Otello
Ph Angelo Redaelli

Non ha una sola anima, ne ha parecchie, ed ognuna di esse è lì, pronta ad offrire se stessa ad uno dei personaggi della storia. Ha qualche cassa su cui salire, per creare il suo speaker’s corner, per esprimere di volta in volta la verità di tutti i ruoli. Gioca con il pubblico, lo provoca, lo stuzzica, lo elettrizza, come le rane galvaniche, lo risveglia della letargia della poltrona, e lo coinvolge sulla scena. Porta davvero su di sé l’eredità di una lunga teoria di interpreti che hanno il dono di fare del proprio racconto un vino pastoso, tannico, che ti accende le gote, che ti scalda, e un po’ ti fa girare la testa. Ha dei musicisti in scena pronti a farsi coro di questa particolare tragicommedia, perché le storie fatalmente, quelle più vere, immerse fino alla punta dei capelli dell’umano, sono insieme tragiche e comiche.

E la musica accompagna questo viaggio da Venezia a Cipro, dall’amore alla gelosia, dalla razionalità alla follia, con la  leggerezza con cui le dita del fisarmonicista scorrono libere tra i tasti. Questi musicisti sono una piccola banda di paese, una di quelle che accompagnano tutti i momenti di una comunità, dai più tristi ai più lieti. Suonano le note funeree del finale che diventa prologo della vicenda, come nella versione cinematografica dell’Otello di Welles, suonano i momenti di festa, amplificano gli stati d’animo, lanciano come arcieri le parole dell’attore ancora più profondamente verso il loro naturale bersaglio, la platea. Non c’è una pausa, non c’è un vuoto che l’attore non riempia dei colori della sua interpretazione, e salta veloce dalla narrazione all’azione in presa diretta, come si può balzare da una cassa all’altra. Ti stordisce piacevolmente la giostra di parole che rallenta, al momento giusto.

Foto dello spettacolo Otello
Ph Angelo Redaelli

Ti mostra  il dettaglio, per invitarti ad avvicinare un po’ di più l’attenzione a quel fatale fazzoletto. Ma se prende in mano un microfono, se lo avvicina al viso, come un crooner alla Sinatra, o come una rock star, allora sa fare il suo dovere di attore drammatico. Idealmente si toglie per un attimo l’ideale berretto a sonagli, e calza dei coturni tragici che gli stanno a pennello. E tira fuori tutta la disperazione di Otello, il tormento che lo invade per il gesto fatale che sta per compiere. E lo spettatore se lo ritrova tutto lì, in quel palcoscenico di parole che incantano, che ti prendono per mano e ti fanno credere di essere lì, in una camera da letto di Cipro, ad assistere a un terribile femminicidio. Non si ferma Davide, non si ferma mai, ha più fiato di quanto ne potrebbero avere tutti i personaggi insieme.

Sembra uno di quei bambini con l’argento vivo addosso, con lo sguardo di chi ti sfida a stargli dietro, a seguirlo nella corsa e nei giochi. Ha la fiamma di Prometeo che arde negli occhi questo interprete, in grado di alzare la sua temperatura emotiva, ed insieme quella della platea. Un fuoco in grado di accenderne altri, una lucciola che si muove con destrezza sul palcoscenico. I suoi gesti e le parole sembrano accettare reciprocamente la sfida di una corsa, di un percorso ginnico che si può affrontare solo con un giusto allenamento. E, proprio come Otello, conquista la sua platea, la sua Desdemona, con la forza del racconto, circonda con un abbraccio di calde parole la platea, che si ritrova lì, ad meno di un passo da lui, e non può fare altro che accorgersi di esserne stata sedotta.

Foto dello spettacolo Otello
Ph Angelo Redaelli

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Arianna Relocked – Recensione Teatro

in Teatro
Arianna Relocked

Nell’ambito della rassegna DonneTeatroDiritti di Pacta dei Teatri, e di PACTAsoundZONE vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Arianna Relocked, digital contrafactum sul Lamento di Arianna di C.Monteverdi, ideato e realizzato da Canone Inverso

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Illogical Show – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine tratta dallo spettacolo Illogical Show dei Trejolie

Nell’ambito della rassegna Teatro 2.0 Live Streaming “Ieri e Oggi” vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Illogical Show, Teatro comico di situazione, ideato e realizzato dal trio Trejolie composto da Tomas Leardini, Marcello Mocchi e Daniele Pitari.

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Medea delle case popolari – Recensione Teatro

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Immagine tratta dallo spettacolo Medea delle case popolari

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Medea delle case popolari ha perso il centro, ideato e recitato dall’attrice Rossella Raimondi. Uno spettacolo che trova come scena della tragedia antica le nostre periferie, e la illumina con la luce del sorriso della commedia.

Quanti fonemi può contenere un singolo fiato? Quanto anima può stare nello spazio di un respiro? La risposta a questa domanda è tutta nella recitazione di Rossella Raimondi. Tu la senti parlare e ti esplode tutto un universo davanti agli occhi, ascoltandola senti che c’è un intero mondo carico dei colori di un quadro espressionista, c’è un’urgenza di mettere al mondo il proprio mondo, di condividerlo. E tra lei e Medea si ingenera immediatamente un’affinità elettiva, la natura dionisiaca di questa interprete si mostra in una recitazione tutta di pancia, da lupa verghiana. Trova il gioco brechtiano dei cartelli per l‘incipit di questo spettacolo, ci dice immediatamente che la sua Medea sarà unica, E avrà orgogliosa residenza nella periferia dell’impero/città. E se Testori aveva il suo dio di Roserio, la Barona avrà la sua dea, il suo personaggio che riscriverà la tragedia.

Risponderà di rimando con un sorriso alla beffa degli dei, con un occhio ad Aristofane e l’altro alla commedia dell’Arte. Il suo corpo è un perpetuum mobile, ed apre una competizione fino all’ultima battuta con la voce, entrambi battono sulla tastiera del testo scenico ad una velocità impressionante, e l’attrice non sbaglia la grafia di un gesto, e non manca di marcare una sola sillaba. Guarda frequentemente in macchina questa Medea, e lo fa con la forza visiva del primo piano di Maradona che festeggia l’ultimo gol dei mondiali contro la Grecia, sembra che gli occhi lascino tracimare il dio dell’ebbrezza, sembra la più convinta Arianna pronta a lasciarsi andare al corteo di Bacco. Ha uno stendino come compagno di scena, un meraviglioso objet trouvé di duchampiana memoria, una versione futurista, una geometrizzazione mondrianiana di Giasone. Inventa con esso mille coreografie, lo rende qualunque cosa.

Immagine tratta dallo spettacolo Medea delle case popolari

Restituisce a questo oggetto gli dei che Talete trovava in ogni cosa. Come la pipa di Magritte è tutto, ma qualcosa di diverso da un semplice stendino. Rappresenta l’esempio concreto della lezione di Peter Brook, come nell’essenzialità della scena si ritrovi tutto il potenziale della sostanza del fare teatro. Questa è la Medea in grado di accogliere in sé Euripide, Virginia Wolf, Alvaro, è la maga, quella che non può abitare nella “reggia” del centro città, la diversa che fa della sua diversità uno stendardo, un potente e tonitruante cri de guerre. Incarna anche gli altri, gli stranieri che abitano questa banlieu milanese. Ci restituisce ogni ritratto di questo mondo esotico, e si ha l’impressione di sentire lo sferragliare ideale degli appendini sul porta-abiti, e del frusciare dei vestiti dei personaggi e dei caratteri che, con rapidità fregolistica, riesce ad indossare e cambiare.

Con la furia di una Erinni chiede di essere riconosciuta, domanda di essere percepita, e quindi di poter essere su un palcoscenico, chiede il nostro sguardo ed il nostro ascolto con la forza di un mare in tempesta. Trova un’interattività con il pubblico, che sulla carta sarebbe impossibile nella smaterializzazione del digitale, eppure, dalla parte del monitor dello spettatore, si avverte distintamente l’odore di anima ed insieme della carne. E la suda tutta quell’anima Rossella Raimondi, traspira anche quella che non ha, ci dona tutto e anche di più. Quanto è generosa questa Medea delle case popolari nel darsi, nell’offrirsi sull’ara dell’altare multimediale, facendoci sentire lo sfrigolio ed il fumo invitante della parte della carne che era riservata alle divinità. Si mura nella sua stanza la protagonista, come il Pink dell’opera rock The Wall, e dopo tutto noi potremmo essere i mattoni di quel muro, trova una sua forma di protesta estrema.

Immagine tratta dallo spettacolo Medea delle case popolari

Si inventa una famiglia paradossale con lo stendino e dei figli-stendini che giocano l’estrema partita tra l’oggettività e la soggettività. Si inventa quella cattività, quella forma di esclusione, quasi fosse una sorta di rimedio omeopatico per combattere il male con il male. Ma quel muro non può che cadere, e la protagonista ha un sorriso che non può spegnersi, come la fiamma di Prometeo. La sua risata è lo spirito più vero, più autentico del komos, di quello stato di gioia, di entusiasmo, nel senso etimologico di avere la divinità dentro di sé, delle antiche cerimonie che celebravano la fertilità. È contenta di esserci Medea, di essere fra noi, ed idealmente sembra proporci il girotondo del finale di 8 ½ di Fellini, è la vita che non perde la sua luce, e si fa specchio per mostrarci che anche nella nostra si può riscoprire la stessa luminescenza.

Quando Rossella/Medea delle case popolari sorride, ci regala qualcosa di più di un semplice sorriso, ci dona la forza stessa, che sta dietro a quell’atto, quell’infaticabile, incrollabile spirito di un Tantalo che magari fallirà, ma, come ci ricorda Beckett, non importa, fallirà ancora, fallirà meglio. E visto che non ha un Euripide a disposizione per fornirle un deus ex machina, ovvero il dio sole che le presti il suo carro andarsene altrove, si inventa lei quel dio che dovrebbe salvarla. E ritrova tutta quella luce nel suo sguardo, negli occhi bistrati come quelli della Callas nel ruolo di Medea, e nella gioia e nell’euforia che traspare da quella decisa piega della bocca, da quell’arco che chiamiamo sorriso.

Immagine tratta dallo spettacolo Medea delle case popolari

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