VERLAINE+RIMBAUD – Recensione Teatro
Nell’ambito della rassegna teatrale di Pacta dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo VERLAINE+RIMBAUD (Un’ora all’Inferno con te) di Maddalena Mazzocut-Mis, dalle liriche di Verlaine e Rimbaud, interpretato da Alessandro Pazzi ed Edoardo Rivoira. La regia è curata da Annig Raimondi, e la voice off è quella di Massimiliano Zavatta. Diciamolo subito, questo spettacolo, con il piglio di un Antigone, vuole raccontare l’assoluto, quell’universale che gronda dal verso poetico, dalla poesia simbolista, e lo fa passando attraverso il corpo e la voce dei due interpreti. Fin dall’antichità gli esseri che sono scelti dagli dei per diventare la loro lingua umana, per tradurre le loro parole, sono condannati ad una irriducibile diversità, ad una malattia metafisica cronica che gronda anima. Rimbaud e Verlaine, attraverso la loro presenza, sono, prima di tutto, la loro corporalità, che diventa una sorta di coreografia, perché il corpo è già un primo segno grafico, una calligrafia che scrive faticose parole esistenziali. Sembrano gli ultimi pezzi di una scacchiera, i due re che ostinatamente continuano una partita, la quale non può che risultare patta, lo scaccomatto, semmai, se lo daranno autonomamente. È la storia di un “odi et amo” catulliano.
Esprime una liason che non può che essere dangerouse, perché ha come terzo amante la poesia stessa. La luce taglia a rasoiate lo spazio, lo fa sanguinare, cerca l’altro, si sforza di far intuire paesaggi diversi, metafisici. E quel busto in scena racconta benissimo il senso si straniamento, di solitudine del poeta, che, al pari dell’albatros di Baudelaire, quando è costretto a muoversi sulla terra, tra la prosaicità della vita, caracolla goffamente, magari, similmente a Rimbaud, cercando nell’Africa del “hic sunt leones” un inconscio kurtziano, un cuore di tenebra con cui poter regolare finalmente gli ultimi conti. In fondo la loro coppia rappresenta l’eraste e l’eromene, l’antico amore didattico tra il giovane e l’uomo maturo. Ma qui ad insegnare il caos di Dioniso sembra essere Rimbaud, che dell’Alcibiade del Simposio ha l’ebbrezza procuratagli da una bottiglia di assenzio, e Verlaine di Socrate ha la tentazione di sorseggiare la cicuta.
Spera di poter guarire definitivamente dalla malattia esistenziale. Ed intanto si parlano con le loro poesie, che, attraverso la voce fuori campo, vivono anche nell’originaria lingua francese, ed è una piacevole scoperta quella di poter assaggiare la matericità di questo suono. Non è un caso che lo specchio, sia esso un piccolo cerchio, o uno grande in grado di abbracciare l’intera figura, incarni la presenza scenica in grado di diventare l’irresistibile forza di gravità per i due personaggi. Questo oggetto mi ricorda i versi letti alla Lady Lyndon cinematografica: “Les coeurs l’un par l‘autre attirés/se communiquent leur substance/ tels deux miroirs ardents…”, i cuori si comunicano la loro sostanza come possono fare due specchi ardenti, i due poeti si trovano e si perdono nel gioco dell’identità dello specchio, che ci restituisce insieme l’identità e l’altro. Lo specchio rimanda etimologicamente al “guardare”, è l’oggetto atto a guardare ed insieme a guardarsi.
Diventa l’antico strumento fiabesco delle proprie brame, lo interrogano su chi sia la più bella del reame, ma la risposta invariabilmente è: “la poesia”, e la vita è condannata ad essere la prosa, la eco di una luce superiore, di un’illuminazione che riposa sul foglio. È brava la regista Annig Raimondi a creare una sorta di coreografico e delicatissimo pas de deux, dove i corpi stessi dei poeti diventano simbolo, si cercano, si trovano, si respingono, ma non riescono ad allontanarsi definitivamente, si danno significato reciproco attraverso questa dolorosa dialettica. Per raccontare i vasti orizzonti metafisici del panorama poetico dei due personaggi, riesce a straniarli, riuscendo nell’impresa di vestire Brecht della seta della poesia simbolista. Torreggiano sulla scena, danno senso allo spazio intorno a loro, costruendo continue distanze, geometrie dinamiche. Giocano coll’allontanarsi/avvicinarsi come l’Hans freudiano fa con il suo rocchetto.
E davvero il loro gioco serio e tragico, va al di là del principio dl piacere, ed ad un certo punto il rocchetto diventa il grilletto della pistola di Verlaine rivolta contro Rimbaud, la tentazione della “mortido”, Thanatos strattona decisamente Eros, e fatalmente lo fa cadere. Alessandro Pazzi, l’interprete di Verlaine, riesce a graffiare ed accarezzare con i suoi fonemi, si lascia abitare dalle parole, fa decisamente percepire allo spettatore quanto sia dolce naufragare in questo mare. Più che l’anima di un singolo personaggio incarna quella delle liriche, s’immedesima nel verso diventando una sorta di Pizia, di oracolo posseduto da una voce divina. Si avverte tutta l’urgenza non di limitarsi ad interpretare la poesia, ma di essere quella luce lirica, fonema dopo fonema, gesto dopo gesto. Edoardo Rivoira è un perfetto Rimbaud che esprime nella sua vocalità i suoi pugni nelle tasche sfondate.
La sua dinamite anarchica nei confronti di un mondo farisaico, troppo piccolo per contenere la sua poesia, si incontra e si scontra con Verlaine, diventa un suo doppio, incarna il Dioniso che intossica il suo amante poeta. Ma soprattutto parla con il corpo, ne fa una sorta di pietà scultorea, di estremo verso poetico scritto, inciso, nella carne, nei muscoli, nei nervi e nei tendini. I due poeti passano la loro stagione all’inferno, ed il grido per le ustioni di quel calore diventa la loro poesia. Come i personaggi di Sartre sanno che l’inferno sono gli altri, ma nel gioco dello specchio comprendono che quell’inferno è l’immagine che l‘altro rimanda di se stessi. E sugli applausi finali, caldi e particolarmente generosi, idealmente riescono, insieme agli spettatori, a rivedere le loro stelle.
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