Freud e Karenina
Nell’ambito della rassegna teatrale 2023/2024 de Il teatro dei Contrari, vi presentiamo lo spettacolo Freud e Karenina, scritto e diretto da Fabio Mazzari, con Giuliana Meli e Fabio Mazzari.
Che ci sia un’affinità elettiva, un’amorosa intesa di sensi tra il teatro e la terapia dell’anima, è un dato di fatto. La buona e vecchia catarsi aristotelica era lì, pronta ad essere riscoperta da Freud, insieme a Edipo e alla sua accecante rimozione. Quello di Colono era ancora di là da venire, con Jung, come forma di perdono metafisico, e sublimazione della colpa. Tuttavia Fabio Mazzari, regista e interprete di questo spettacolo, compie un passo avanti, si potrebbe dire, nell’ideale alveo di un jodorowskyano atto psicomagico, e fa tesoro della frase di Hillman “non è l’uomo che va curato, ma le immagini del suo ricordo”. E’ la metafora ad avere potere curativo; il linguaggio metaforico, dunque, quello dell’arte. Quello che il Freud scenico fa, nei confronti dell’eroina tolstojana Anna Karenina, lo fa, metateatralmente, nei confronti del teatro tutto, in particolar modo capitalizzando l’attenzione sullo sguardo della platea.
Si percepiscono quegli atti mancati, quello scricchiolante silenzio, così significativo di tutta una serie di psicopatologie della vita quotidiana. Signore e signori, la verità è questa: da più di 25 secoli, la forma teatrale ha valore terapeutico. Un lunghissimo ciclo di sedute di psicanalisi, in cui si è chiesto a noi pazienti di non fuggire, frettolosamente, nella guarigione, ma di continuare il gioco sempiterno di una terapia in cui i sintomi diventano dèi; in ultima analisi, essi hanno la capacità di trasmutarsi in forza poetica, e portano in dote la luccicanza del’assoluto, necessaria cartina di tornasole di tutto ciò che ha sostanza lirica. La capacità di Mazzari, lentus in umbra, deus in machina della vicenda, curioso, kantoriano, osservatore interno, è quella di saper rendere i suoi fonemi mesmerizzanti, anche e soprattutto nei confronti della platea. Si tratta di una forma di ipnosi dolce, morbida, di matrice ericksoniana.
La sensazione, ascoltandolo, è quella di andare al di là della pura e semplice sottoscrizione di un patto narrativo; piuttosto, lo stato di coscienza si altera, leggermente, giusto quel tanto per consentire ad Alice-Anna di andare giù, giù, nella tana del Bianconiglio del suo inconscio. Siamo fatti, ci ricorda il regista/attore, della stessa materia dei sogni, a dimostrazione che Shakespeare aveva già avuto lampi di verità sulla parte nascosta dell’iceberg nello spirito umano. Ma siamo altresì fatti di parole, che, a volte, si slabbrano, perdendo il potere connettivo della trama e del loro ordito. Ma ecco che un Freud teatrale può riparare, con la pazienza certosina con cui un ragno ripara la propria tela, le parole, le immagini, le metafore di una donna letteraria, scoppiata dentro il cuore del suo autore. Ed ecco, dunque, mostrarsi un’eroina in grado di scendere dal piedistallo del mito, dall’agiografia letteraria, e di incarnare, meravigliosamente, la nevrosi.
Quanto possa avere una decodifica freudiana il famoso aforisma pascaliano “il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce”, lo scopriamo proprio attraverso questo personaggio. Anna si conosce, dolorosamente, attraverso le sue stesse parole, ma soprattutto, attraverso in quelle lacaniane aree di non pensiero, in cui si ritrova l’inquieta essenza del proprio essere. Ha una fame di assoluto, come tutta la lunga teoria delle migliori donne della tragedia. L’essere umano, visitato dalla divinità, non sarà mai più lo stesso; sarà forse un oracolo, una Pizia, ma anche un soggetto impossibilitato a vivere nei canoni della normalità. E Freud/Mazzari studia, con empatica complicità, questo enigma, arrivando a una soluzione zen, ad un salto al di là del razionale, della mente analitica: la soluzione è la non soluzione. E’ l’accettare, e, insieme, il sublimare le proprie contraddizioni. Dioniso sa anche lambire, e conquistare, la sua Arianna con la mano leggera di una carezza lunga.
Questo atto d’amore ha le sembianze, e l’anima, di un fraseggio che trasforma la laringe nell’ottone della tromba di Chet Baker; e il suo almost blue diventa il blu di certe luci, fatte apposta pe appenderci certi ricordi, che non sai se siano tracce di sogno o di memorie. I fonemi di Mazzari hanno uno struggente sapore di nostalgia: provengono da Lear che già ha capito, ha preso coscienza, ed è pronto a cercare la sua personalissima Colono. I sorrisi sono dolcemente dolorosi, e il vieux roi guarda con una conquistata saggezza tutto ciò che intono a lui accade. Non si sa se il suo bastone sia semplicemente un ausilio per la deambulazione, o, piuttosto, quello di un Prospero, pronto a incantarci con una nuova magia. La sua recitazione – non potrebbe essere altrimenti, visto il contorno psicanalitico – parla soprattutto attraverso l’ascolto, i silenzi, certi controcampi che hanno la forza di due ali d’angelo.
Questi arti piumati decidono, deliberatamente di abbracciare, piuttosto che volare via. Giuliana Meli è un’Anna Karenina carnale, prossima ad una Lupa verghiana. Favorita da una fonazione da contralto, piacevolmente grattata, recita portandoci in dote il suo ventre, la sua femminilità ritrovata, non nel minuetto di una seduzione geometrica, ma nel valzer della passione. Il suo magma interiore si mostra con la potenza di uno spettacolo vulcanico; non a caso, Ferreri aveva deciso di intervallare il suo Simposio platonico con l’immagine di un’eruzione etnea. L’attrice si lascia abitare da questo daimon, questo spirto guerrier ch’entro le rugge. I momenti di dolcezza e pacificazione sono la conquista di un personaggio che entra in travaglio nello studio del dottor Freud, e ne esce avendo partorito, più che verità, gocce di guizzante poesia. L’intero spettacolo è un atto d’amore urgente per la parola teatrale, anzi, per tutta la parola artistica e poetica, che perdona e si perdona.
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