Nell’ambito della rassegna Teatro 2.0 Live Streaming vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Ultima notte Mia, un omaggio alla grande cantante per cui “non finisce mica il cielo”, ma continua nella voce, scritto da Aldo Nove, e diretto dal regista Michele De Vita Conti. A vederla torreggiare, fiera, su un letto, questa Mia Martini, magistralmente interpretata da Erika Urban, sembra di vedere un antico personaggio della tragedia greca. Ecco che fa mostra di sé una Cassandra che sa bene quale sia il prezzo di essere una favorita degli dei, ma anche quello di non voler mercanteggiare o scendere a compromessi per la loro benevolenza. L’una è condannata a non essere creduta, l’altra a un’ottusa, irrazionale, superstizione, ad una diceria dell’untore, al gioco tragico della sfortuna. Come calzano bene i coturni tragici sui piedi di Mia, e come affronta con la dignità di una Antigone il suo destino, e a ogni doloroso sorriso sembra dirci: “nacqui a legami d’amore e non d’odio”. E persino gli dei, gli stessi che ostinatamente cercano di fare deragliare il suo destino, rimangono in silenzio, come il pubblico di una partita a tennis.
E qui, al posto dello schiocco della palla sulla rete della racchetta, si sente quello della lingua. La protagonista non si limita a raccontarsi, si spreme letteralmente l’anima in ogni fonema, batte ogni sillaba di emotività, la sua tastiera interpretativa non perde una singola lettera, anche sotto il diluvio delle dita cardiache. È instancabile, e soprattutto, è sempre lì, esattamente nella battuta che pronuncia, nel presente di ogni istante, non manca un solo appuntamento emotivo con il testo. E poi ci sono gli sguardi, certi sguardi che diventano come dei punti di sospensione, come dei momenti in cui, mentre la parola tira il fiato, l’anima si mostra senza mediazioni. Guarda in macchina e sembra avere l’intuizione dello sguardo degli spettatori, guarda tutti noi, e si ha la netta impressione che quegli occhi pronuncino la stessa frase pirandelliana tratta dai Sei personaggi: “Ma quale finzione, realtà!”.
Tutto si incastra alla perfezione, tutto si combina meravigliosamente, il testo scritto da Aldo Nove, la regia di Michele De Vita Conti, e l’interprete Erika Urban, ogni tassello va al posto giusto e compone il ritratto di una grande interprete della canzone italiana. Questo monologo è molto di più di una storia di una vita artistica, è il viaggio attraverso una vocazione, il bisbiglio del daimon socratico che ad ogni passo sussurra alla protagonista: “Canta e fallo come sai fare tu”. Non capita spesso di vedere una vita raccontata così naturalmente, in grado di rinfrescarti come può fare l’acqua di fonte sul viso. Per fare un testo scenico basta un letto ed un sorriso vestito di un’anima che è lì per ricordarci quanto sia importante conquistare la propria storia, e , in definitiva, se stessi. Erika ha la capacità di entrare in una speciale intimità con lo spettatore.
È come se ci trovassimo tutti lì, sotto le coperte, per ascoltare quella storia che, per dirla alla Breil, è riuscita ad invecchiare, senza diventare adulta. Ha l’argento vivo di una bambina, di una Zazie nel metrò questa Martini, ed anche quando la voglia di piangere sarebbe lì, a meno di un fiato dalla guancia, c’è sempre pronta una fanciulla che ha una voglia matta di cantarcela questa vita. E d’altra parte il discorso quando si riempie raso di emozioni, non può far altro che trasformarsi in canto. L’attrice riesce in un vero e proprio miracolo, vale a dire quello di far sentire nelle sue battute, la musica di Mia, di farci odorare il profumo delle intenzioni di un canto che sottende tutto questo monologo. E poi c’è il racconto dell’arresto, il momento in cui le viene marchiata a fuoco la lettera scarlatta della porta-sfortuna, il problema con la voce.
E dopo segue il calvario delle operazioni. Tutti questi sono ostacoli che la protagonista supera ogni volta con tragica potenza, perché la stessa voce lirica dell’Andrea Chenier che ricorda che “nel dolor può venire l’amore”, è la stessa che parla, che stimola, che sferza la cantante. Ci si incanta letteralmente ad osservare la purezza di questo diamante luminosissimo che accende di luce anche questo testo teatrale a lei dedicato. Ma l’immagine che più ci rimanda l’essenza stessa di questo personaggio, il centro del centro del suo essere, è quella di lei accovacciata sul letto che indossa un paio di cuffie, c’è solo lei e la sua musica, è l’Arianna con il suo Dioniso, in grado di restituirci una danza frenetica, ma immobile, la passione che l’ha accompagnata per tutta la vita costante quanto la stella polare. La musica l’ha sollevata per tutte le volte che è caduta.
Questa forza vive, con la magnifica sovrimpressione dell’immedesimazione, che si riflette nelle sovraimpressioni delle inquadrature, anche nell’attrice. Alla fine l’impressione che si ricava e che Mia sia molto di più che un personaggio, Mia è una categoria dell’anima, che finalmente ha trovato un nome ed una voce. Se ci si chiedesse dove finisce l’una ed inizia l’altra non si potrebbe rispondere, è questa è la più efficace cartina di tornasole di quanto il gioco serio della recitazione sia riuscito, abbia colto nel segno. Deve esserci per forza Dioniso come nume tutelare di questo spettacolo, che ha il sapore degli dei della Magna Grecia, e in quella terra è nata Mia. Lo spettatore si alza da tavola, per così dire, con l’appetito, con la voglia di avere ancora degli sguardi, delle parole di questa Mia che sa raccontarci benissimo quanto “la gente è strana, prima si odia e poi si ama”
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