Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Una vita da discount, liberamente tratto da “Niente più niente al mondo” di Massimo Carlotto. L’adattamento è a cura di Fabrizio Kofler, che firma anche la regia, e Diana Ceni, interprete del monologo.
Diana Ceni ha un sorriso, e, fino a qui, la notizia sembrerebbe non avere nulla di speciale; ma il suo sorriso ha qualcosa di magico, di unico, irripetibile. Si ha l’impressione che l’idea stessa del sorriso sia stata tirata giù dal mondo delle idee platonico, per posarsi su quel volto, regalando una pietra di paragone per ogni possibile modo di sorridere. L’arco delle sue labbra è una freccia che uccide gli dèi, è la pratica concreta della massima di Marc’Aurelio“La morte sorride a tutti, e uno non può che sorriderle di rimando”. E’ una piuma, Diana, una piuma che atterra in scena, e che mostra se stessa così come è, nell’unico modo possibile di essere se stessi: ovvero attraverso la levità, sorridendo all’esercizio, impossibile, di cogliersi nel movimento del proprio esserci. Ci mostra una creatura che sembra uscita da un film di Ken Loach.
E’un’eroina della working class con le ossa ammaccate, per tutte le pietre che la vita le ha fatto piovere addosso. Si colloca su di una sedia, si sottopone a una sorta di provino e comincia a parlare; e, nelle sue parole, si sente distintamente il profumo della sua anima, come se lasciasse scorrere una specie di compassione buddhista, per i guai passati dal suo personaggio. Potrebbe chiedere conto al buon Montale di quel 95 per cento di vita non vissuta; è uno di quei personaggi che Cechov si limita a contare, sulla lunga linea grigia delle esistenze che sarebbero potute essere, e non sono state. Eppure, la protagonista ha una sua anima, un’individualità. Il suo è un tentativo disperato di far quadrare un bilancio finanziario, sempre sull’orlo dello zero, come quello esistenziale. Trova la forza per rimpiangere quei soffitti viola, a lei mai concessi.
Svela quella voglia di portare un po’ di poesia, un po’ di assoluto nella propria vita. La tragedia di un uomo ridicolo, di gogoliana memoria, qui si declina al femminile, e gli dèi, questo è certo, non sono meno spietati con questa creatura rispetto a quanto possano esserlo stati con Edipo, o con la casa degli Atridi. E poi c’è la figlia, con il suo complesso di Elettra, in cerca di una Clitennestra da detestare, ma con un destino più simile a quello di Cassandra. Dopotutto, lo cantava già De Andrè, non tutti i fiori del male sbocciano nella capitale: alcuni nascono su un balcone di qualche periferia urbana. E sono di un rosso incredibile, un rosso sangue. E’ davvero tutto un equilibrio sopra la follia, e il gesto più inaspettato, e crudele, è nascosto nel nero più profondo dei propri abissi psichici.
Ma sa apparire improvvisamente, sostituendo un paio di ciabatte del discount con un bel paio di coturni. La tragedia è ancora tra noi, si nasconde, si involtola in vestiti presi, per quattro soldi, alle bancarelle. Tristezza e rabbia costruiscono, goccia dopo goccia, una stalattite che, a un certo punto, può staccarsi, e bucare irrimediabilmente un cuore. La vita che non vive, prima o poi, chiede un conto salato agli dèi, e pretende che sia regolato in una volta sola. Allora, ecco che il sorriso si tramuta in pianto, e non c’è farina che possa nascondere questo dolore. Il sorriso è anche quello di un Joker, che cambia improvvisamente le carte in tavola, e manda tutto a carte quarantotto. Il gesto finale della protagonista, con buona pace di Aristotele, non ha nulla di catartico, non è per niente discount: anzi, è tremendamente bigger than life.
Il regista dello spettacolo, Fabrizio Kofler, sottolinea quel riso tragico e isterico, enigmatico e, insieme, semplice, dell’attrice, come fa Joaquin Phoenix quando si disegna il definitivo sorriso, fatto di sangue, sulla faccia. E la drammaturgia si rivela essere un ottimo lavoro, in grado di cogliere i migliori spunti dal libro Niente, più niente al mondo di Massimo Carlotto. Si metta il cuore in pace, il filosofo stagirita: nessuna purificazione, nessuna conciliazione per questa storia stupenda e, insieme, terribile, crudele, come sarebbe piaciuta al buon Artaud. Rimane agli spettatori quel sapore di erba amara, che si consuma nella Pasqua ebraica per ricordare il dolore e la fatica di esistere, e quella curva, che finisce col rassomigliare fatalmente a un punto interrogativo, dipinta sul volto di Diana. Le parole di Levi sembrano scritte nei silenzi di questo spettacolo: “Considerate che tutto questo è stato”.
E per una volta, almeno una, il fatto terribile di cronaca non diventa l’ennesima intramuscolare mediatica, fatta apposta per un piccolo sdegno, che scompaia come un’ombra passeggera, all’apparire del successivo servizio del telegiornale. Non solo tutto è verosimile, ma – ecco l’elemento che rende davvero speciale questa pièce – tutto è tremendamente vicino, e la protagonista potrebbe aver sfiorato il nostro carrello al supermercato, o essere stata quella persona seduta vicino a noi sul metrò, che muoveva le labbra, raccontando a se stessa chissà quale storia. Vincenzina non è più una figura quasi chagalliana, davanti alla fabbrica di Enzo Jannacci; ora potrebbe tirare le pietre, potrebbe bere molto più sangue bollente di quello evocato da Amleto, e fare le cose terribili che evoca lady Macbeth. Stavolta il male non è banale, ma è la terribile reazione al banale. Ancora una volta, gli occhi di Clitennestra sono chiusi nel piacere, ma sono aperti nel dolore.
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